13 giugno 2007
Le belle parole di Bernardo Bertolucci (VAI) hanno ispirato il convegno di Roma, organizzato da Articolo21 e dall’Assessorato alle Politiche Culturali della Provincia di Roma.
Abbiamo quindi il dovere di partire dall’analisi del grande regista italiano per esplorare i malumori variamente espressi nel dibattito che si è svolto ieri nella Sala “Di Liegro” di Palazzo Valentini, pur maggiormente incentrato sui problemi che affliggono il sistema televisivo.
Bertolucci descrive le tensioni intellettuali e artistiche di un’epoca ancora vivace. In sintesi cita due capolavori del cinema italiano e correttamente definisce “stato di grazia collettivo”  il tempo in cui sugli schermi si proiettava il suo “Novecento” e “Salò” di Pasolini. Ci parla di “generazioni di giovani infelici e assenti, che non sanno di esserlo” e abbiamo numerosi ed evidenti sintomi di questa grave malattia sociale che rischia di minare il futuro stesso dei giovani e degli equilibri culturali su cui si realizza la sana armonia della Cittadinanza.

Eppure, nella sua valida disamina, egli compie un salto di trenta anni che non rende giustizia al disagio giovanile e allo smarrimento culturale che stiamo attraversando. Manca cioè la scena principale, il climax necessario e l’indagine coraggiosa e profonda che dovrebbero invece fornirci la completa esposizione di una trama coerente. “Per questo e per altri motivi è nato il gruppo dei Centoautori”. Quali motivi? Il motivo consiste forse nella verifica che da trent’anni non esiste più quel clima e quella passione? Quell’onestà intellettuale e quella capacità vigorosa d’espressione e di libertà? Non sono stati proprio questi autori, o almeno molti di loro, ad alimentare il messaggio del cinema in questi trent’anni? Sono forse essi stati vittime del sistema e obbligati ad affievolire gl’impeti intensi della sperimentazione, della provocazione culturale e della lealtà verso la società civile?
Tutto questo è possibile, ma un lasso di tempo così ampio rappresenta non certo una semplice parentesi di assenze forzate per colpa di un imprecisato potere. È una vera e propria voragine in cui si rischia di veder precipitare l’onestà intellettuale che un tempo, in quel tempo, imponeva l’esercizio dell’autocritica, termine rimosso ma doveroso quando si retrocede e il disimpegno prende il posto delle nobili pulsioni. In questo baratro si perde il valore della memoria e il grido sdegnato si tramuta in retorica, perché, illustre Bernardo Bertolucci, questi trent’anni di colpevoli silenzi sono stati il frutto di patti scellerati tra politica e intellettuali organici a questo sistema, che in cambio di migliaia di miliardi di denaro pubblico hanno burocratizzato la cultura per permettere a sedicenti produttori di appaltare i loro progetti filmici e realizzare lo scempio di cui sono vittima soprattutto quelle giovani generazioni sfibrate loro malgrado.

Solo il nominare due colossi della politica come Aldo Moro ed Enrico Berlinguer dovrebbe suggerire l’attuale impossibilità di ricreare gli stessi presupposti di dialogo e cooperazione che c’erano al tempo dei due grandi leader. Anche rispetto alla loro scomparsa è molto il tempo trascorso e la scena politica che ha caratterizzato questo tempo è povera di contenuti, di senso di responsabilità ed è priva di uomini che presentino nella loro azione anche un minimo accenno dello spessore che avevano Moro e Berlinguer.

Vorrei chiedere al grande maestro del cinema se non fosse stato più significativo e opportuno dire ai colleghi del neonato movimento: cominciamo noi per primi a ricreare fervore artistico attraverso le nostre opere. Occupiamo di nuovo il posto che ci compete, quello creativo e impegnato, invece di correre dietro alle telefonate al funzionario del Ministero, al direttore generale di qualcosa, all’amministratore delegato di qualcos’altro (risparmio i nomi e cognomi) e a tutta la serie di relazioni burocratiche particolari che hanno sostituito la voglia di inserire contraddizioni e provocazioni intelligenti nella realizzazione dei film. La popolazione, in quel tempo citato da Bertolucci, si scuoteva e vibrava anche grazie alle opere di registi illuminati, che avevano il coraggio di oltrepassare il recinto della “funzionarietà” al sistema. I giovani potevano servirsi di parametri artistici validi tanto per lo stimolo alla “presenza” quanto per la corretta valutazione artistica di un film.

Questi trent’anni su cui si è preferito tacere pesano mortalmente e anche il consueto attacco a Berlusconi diventa parte di una litania parossistica che sceglie di inquadrare l’effetto per tralasciare le cause. Il fenomeno Berlusconi, unico nelle società democratiche occidentali, prende vita nel vuoto mai colmato della scomparsa di grandi personalità politiche e dall’abbandono delle idee forti. A scavare quel vuoto hanno collaborato attivamente anche le categorie intellettuali che hanno voluto creare una distanza nei confronti dei Cittadini, ritenendosi casta privilegiata e impermeabile. Di “topi nel formaggio” in questi anni ce ne sono stati fin troppi. Diverso il formaggio e autentici topi solo voraci.

Ripartiamo dalla Cultura e non dalle richieste a una Politica che sta vivendo gravi scompensi e che deve affrontare sconvolgimenti dei quali si fatica ad intuire paradigmi e progettualità. Scommettete, ma davvero, sui giovani e lasciamo loro gli spazi logistici e intellettuali per sperimentare e per fare ricerca fuori dalle logiche dei palazzi e degli uffici dei baroni. Sono soprattutto loro la nostra più grande ricchezza. Sosteniamoli e scommettiamo su di loro senza strumenti di parzialità, quali il nepotismo e il clientelismo. Quelli bravi che possano dimostrare di esserlo senza dover confezionare il pacco che vuole il padrone. Garantiamo presenza e attività, che sono le ricette migliori per liberarli dall’apatia e dalla rassegnazione. Da loro soprattutto arriveranno le contraddizioni e gli antidoti più efficaci contro le perversioni di una certa stravagante politica italiana.

Dopo anche le classi dirigenti politiche compieranno il loro passo e supporteranno con più responsabilità le richieste dei Centoautori.
Non contrastate i progetti indipendenti, non cercate di soffocare l’onda che sta nascendo e la voglia condivisa tra artisti e cittadini di dare vita a una grande stagione di novità e di fiducia.
Appoggiate invece l’iniziativa di migliaia di donne e uomini, di ragazze e ragazzi che stanno tracciando una strada innovativa con entusiasmo e passione. Tra loro potrebbe esserci un nuovo Bertolucci o un altro Pasolini, pur con il riguardo per due nomi così grandi e con le naturali differenze che le condizioni storiche e sociali hanno determinato.

Di una cosa però possiamo essere certi: solo da loro può arrivare la nuova essenza che colmerà quel vuoto.
Non continuate a tenerli ai margini. Ora tutti loro non sono più ai margini e hanno un grande strumento di libertà e di espressione che sapranno sfruttare e alimentare sempre di più.
Con questo straordinario strumento restituiremo a moltissimi una dignità che abbiamo smarrito da trent’anni. Lo stato di grazia deve essere “collettivo” oppure non sarà.

Stefano Pierpaoli
giugno 2007


 

Lettera di Bernardo Bertolucci al direttore di Repubblica,
11/giugno 2007

Caro direttore, qualche giorno fa ho sentito a un Tg questa frase: «Dal governo di centrosinistra vogliamo azioni, ma concreti, tutto il resto è… poesia». Partirei proprio da queste parole di Berlusconi, credo passate inosservate, perché ripropongono così esemplarmente la mappa elementare del rapporto tra B. e la cultura. Da un lato gli affari, i valori veri, quel che per lui conta nella vita, dall’altro qualcosa che suona più o meno un dileggio. La parola poesia usata come sintesi della miseria che ci rimane se non si condivide la sua visione del mondo: fumo, illusioni, fastidiose bugie. Poesia più o meno uguale spazzatura. Un vero e proprio lapsus rivelatore. Oggi come allora, voglio parlare del disagio che provo ormai da tempo, soprattutto dalla campagna elettorale dell’anno scorso. II perché è semplice: non ho mal sentito nei discorsi dei politici per cui mi preparavo a votare pronunciare la parola cultura. Dimenticata? Sottovalutata? Rimossa? Come se i miei politici di riferimento ignorassero che la sottocultura diffusa, o meglio imposta dalle grandi centrali televisive, sta creando generazioni di giovani infelici e assenti, che non sanno di esserlo. Così incapaci di leggere, di interpretare, di capire la realtà che li circonda da votare ancora una volta, dopo cinque anni di catastrofico centrodestra, per lo stesso centrodestra. In certe assunzioni di farmaci questo si chiamerebbe effetto paradosso. – Per esempio mi chiedo perché in Italia non è stata possibile la nascita di un canale come “Arte”, la cui ragione sociale è il fare cultura, diffonderla, allargare il numero dei suoi spettatori allargando insieme il numero dei suoi autori, inventandone di nuovi, promuovendoli. Varrebbe la pena di interrogarsi sul perché da noi qualcosa del genere è stato inimmaginabile almeno fino a ieri. C’è stato un momento, verso la metà degli anni Settanta (gli anni di Moro-Berlinguer) che vorrei ricordare a tutti coloro che lo hanno vissuto, in cui sembrava essersi trovata una gioia, una magia tra la cultura di questo Paese e la sua gente. Le parole, i libri, i film venivano percepiti in maniera che chiamerei sensuale. In quel clima di straordinaria tensione creativa e morale e politica abbiamo visto qualcosa di irresistibile: gli occhi della gente reinventavano quello che ricevevano, elaborandolo, allungandogli la vita, rilanciando. Non vivo nel miele della nostalgia o nell’illusione che quello stato di grazia collettivo possa ripetersi ma sono certo che ricordarlo costituisca un diritto per chi come me ci ha vissuto dentro come un topo nel formaggio. Perdonatemi l’autocitazione, ma un esempio è “Novecento”, riuscito o meno non conta, un film completamente partorito da quel clima e premiato dal grande impatto che ebbe sulla gente. Mi chiedo: un film come “Novecento” sarebbe possibile oggi, nella sua libertà, nella sua utopia produttiva, nella sua megalomania, nell’estremismo delle sue contraddizioni? Io so che per anni ho tentato di chiuderlo con un terzo atto che arrivava ai giorni nostri ma ho dovuto rinunciare per onestà: il clima culturale e politico era sfumato. Mi torna in mente anche ‘Salò”, l’ultimo Pasolini, girato negli stessi mesi e a poche decine di chilometri, la distanza tra Mantova e Panna, film atroce e sublime. Sarebbe possibile oggi “Salò”? Per questi e molti altri motivi è nato il gruppo dei Centoautori, che riunisce soprattutto scrittori e registi cinematografici, e ci sembra il momento di richiedere e d pretendere dalla politica un progetto culturale articolatissimo, ambiziosissimo e economicamente molto impegnativo, almeno quanto una delle opere pubbliche di cui abbiamo sentito parlare negli ultimi anni fino alla nausea. Altro che assistenzialismo! E qualcosa che è avvenuto fisiologicamente in altri paesi, vedi la Francia e qualcuno dovrebbe spiegarmi perché non può accadere da noi. Un esempio: penso a un numero apparentemente sconsiderato di opere prime, un’infinità, una cavalcata di ricerca e di sperimentazione di autori nuovi, nella certezza che anche così il cinema ricomincerà a essere nutrito e a nutrire la realtà che lo circonda. Per concludere: cerchiamo insieme una maniera per rendere il terreno creativo molto più fertile. Sappiamo che è molto difficile e soltanto con l’impegno di tutti noi sarà possibile cominciare a pensarci su. Come fare? Non lo so. So soltanto che ho visto molti autori italiani stanchi di essere i bozzoli vuoti della loro creatività, condannati a galleggiare solitari sulla superficie ormai liquida della società, da cui si sentono forzatamente alienati. E il vero senso di queste mie parole è la rivendicazione del diritto-dovere collettivo-individuale di ognuno di noi di partecipare all’elaborazione di questo progetto che nasce minoritario e doloroso ma potrebbe diventare entusiasmante e memorabile. Il cinema non è che la prima occasione per rompere una estraneità che si ingigantisce ogni giorno di più, una estraneità che ci fa sentire come morti, ma il sentimento che provo vorrebbe coinvolgere tutti quelli che come me hanno voglia di vedere un film che ancora non esiste, di leggere un libro che ancora non è stato scritto. Se tutto il resto è poesia, diamole una possibilità di esistere.

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