5. Analfabetismo cognitivo

analisi multiprospettica di un fenomeno in crescita

Definire il vuoto: cos’è l’analfabetismo cognitivo

C’è un vuoto che cresce in silenzio, anche nei luoghi pieni di parole. È il vuoto del senso.

Non si vede facilmente. È convenzionale, apparentemente inserito, a volte vestito con titoli e diplomi, utilizza connessioni veloci. Ma legge senza davvero comprendere, ascolta senza mettere in discussione, ripete concetti senza averli realmente assimilati. È un analfabetismo che non riguarda più la capacità di decifrare lettere o scrivere frasi corrette, ma qualcosa di più sottile e inquietante: l’incapacità di pensare con profondità e struttura.

L’analfabetismo cognitivo è un fenomeno nuovo e antico al tempo stesso. Antico, perché in ogni epoca c’è chi ha faticato ad accedere al sapere. Nuovo, perché oggi questo vuoto nasce da dinamiche legate alla “postmodernità”. Qualità dell’istruzione, disagio socio-economico diffuso e scarso esercizio cognitivo sono solo alcune delle cause che stanno ingigantendo questa piaga. Un deficit che compromette in profondità il nostro modo di interpretare la realtà. non per la mancanza di informazioni, ma per il loro eccesso. In un mondo dove tutto è leggibile, guardabile, ascoltabile, rischiamo di perdere la capacità di comprendere davvero. È una forma di assenza che si nasconde nella sovrabbondanza.

Le sue manifestazioni sono molteplici: difficoltà a seguire un ragionamento articolato, incapacità di distinguere tra fonte attendibile e opinione casuale, scarsa tolleranza alla complessità, perdita del pensiero critico. Ma ciò che le accomuna è un tratto comune: una mente che fatica a reggere l’urto del mondo complesso.

Possiamo immaginare l’analfabetismo cognitivo come una lente graffiata: tutto passa attraverso, ma distorto. Le relazioni tra causa ed effetto si confondono. Le argomentazioni sembrano tutte equivalenti. Le decisioni si prendono sulla base del tono, non dei contenuti. È come se il pensiero avesse perso l’abitudine a procedere verso l’alto e si muove in orizzontale, senza mai andare in profondità.

Il paradosso è che questa condizione si manifesta proprio dove l’accesso all’informazione è massimo. Ci sono milioni di testi, articoli, video, strumenti. Ma leggere non basta. Informarsi non equivale a capire. “Sapere male” è il nemico del saper pensare. Ed è qui che il vuoto si fa più insidioso: non ci accorgiamo di non capire e spesso nemmeno di non sapere.

Non è un fenomeno individuale. È un problema sistemico, sociale, educativo. Non nasce solo nei singoli, ma nei contesti che non favoriscono il dubbio, la lentezza, l’ascolto. Scuole troppo orientate alle risposte, media costruiti sullo scontro, tecnologie basate sull’immediatezza: tutto contribuisce a una cultura che consuma pensieri ma non li digerisce.

Ecco allora che l’analfabetismo cognitivo diventa una forma nuova di fragilità: una fragilità della coscienza, della nostra capacità di orientamento, di discernimento, di profondità. Non riguarda solo l’ignoranza, ma una vera e propria crisi del pensiero complesso.

Il primo passo è darle un nome. Il secondo, riconoscerne i sintomi. Il terzo, domandarsi come coltivare, di nuovo, le condizioni per pensare meglio.

Il pensiero interrotto: neurobiologia della distrazione

C’è un paradosso nel nostro tempo: siamo sempre connessi, ma raramente presenti. La mente salta, scorre, si interrompe. Non perché sia pigra ma perché è stata riprogrammata a vivere in frammenti.

L’attenzione profonda, quella che serve per riflettere, analizzare, creare, si indebolisce in ambienti saturi di stimoli rapidi. I circuiti della corteccia prefrontale, fondamentali per il pensiero strategico, si attivano a fatica, mentre il sistema limbico cerca gratificazioni immediate: una notifica, un video, un like.

Il tempo dell’attenzione si accorcia, la soglia della noia si abbassa. La lettura di un testo complesso diventa faticosa, la concentrazione un esercizio eccezionale. La mente tende a preferire input rapidi e brillanti a contenuti lenti e articolati. È una forma di addestramento involontario, dove ogni click rinforza un’abitudine: saltare invece di sostare, reagire invece di riflettere.

Torniamo a scegliere il silenzio, la lentezza, la concentrazione. Compiamo questo meraviglioso gesto sovversivo. In un mondo che ci vuole reattivi, pensare in modo cosciente è una forma di disobbedienza dolce. Un atto di riconquista della mente, del tempo, della libertà interiore.
Ci ritroveremo più umani.

Errori che vengono da lontano

Chi ci dice che ciò che percepiamo è davvero lì, com’è?
Il nostro cervello non è uno specchio della realtà, ma un costruttore attivo di mondi. Interpreta, seleziona, filtra. Molto spesso gli capita di sbagliare.

Gli errori percettivi non sono difetti, ma scorciatoie evolutive. Vediamo ciò che è rilevante, non tutto ciò che c’è. Questo spiega ad esempio le illusioni ottiche ma anche qualcosa di più profondo: il nostro sistema percettivo è guidato da aspettative, abitudini, probabilità. In fondo, vediamo ciò che ci aspettiamo di vedere.

Anche a livello inconscio, la mente è attraversata da bias[2], errori sistematici nel modo in cui giudichiamo, ricordiamo, decidiamo. Questi non nascono dalla malafede, ma dalla necessità: il cervello preferisce risposte rapide e sufficientemente buone, piuttosto che analisi lente e perfette.

La coscienza razionale arriva spesso tardi, a giochi fatti. Molte scelte sono già state prese da circuiti emotivi o automatismi inconsapevoli. Il pensiero razionale, quello che crediamo di usare sempre, è solo la punta emersa di un iceberg molto più profondo.

[2] I bias cognitivi sono distorsioni sistematiche nella nostra capacità di pensare e decidere, portando a giudizi irrazionali e comportamenti inefficaci. Spesso sono dei costrutti fondati su ideologie e pregiudizi che consentono di prendere decisioni ma che possono indurre in errore.

Il sapere che non si condivide: crisi della cultura pubblica

La conoscenza, per fiorire, ha bisogno di luoghi. Spazi dove si possa discutere, contrapporre idee, ascoltare visioni diverse. Negli ultimi decenni, molti di questi luoghi si sono svuotati o silenziati: la biblioteca, il dibattito pubblico, la scuola come comunità, perfino il tempo condiviso della lettura.

Quando il sapere smette di essere sociale, diventa fragile. Ognuno costruisce la propria realtà informativa, spesso guidato da algoritmi che selezionano ciò che conferma le sue credenze. La verità si frantuma in mille opinioni. Il confronto lascia spazio alla polarizzazione. Il sapere, da bene comune, diventa proprietà privata a uso e consumo del venditore o dell’assessore di turno. Una proprietà precaria nella sua perdita di senso e di missione.

È la crisi della cultura pubblica. Una crisi silenziosa, ma profonda. Non si tratta solo di mancanza di conoscenze ma dell’erosione di un patto: l’idea che capire insieme sia meglio che capire da soli.

Quando viene meno una base condivisa di linguaggi, riferimenti, metodi, si fa difficile costruire un discorso comune. La democrazia si indebolisce. La verità diventa negoziabile. E il pensiero si trova a vagare in solitudine, privo di eco.

Ritessere una cultura pubblica del pensiero non è una nostalgia paranoide. È un atto urgente ed è l’unico che afferma la nostra inderogabile condizione di sopravvivenza collettiva.

Rianimare il pensiero: piccoli esercizi di resistenza

Rianimare il pensiero non significa fare di più. Vuol dire iniziare a fare altrimenti.

Comincia dai gesti minimi: leggere senza notifiche, ascoltare qualcuno senza interrompere, annotare le domande e non solo le conclusioni. Camminare senza meta per far decantare un’idea o per andarla a cercare. Spegnere la luce prima di dormire per chiedersi: che cosa ho davvero pensato oggi? Rischiare l’insonnia di una notte per conquistare la serenità per tutte le altre.

Il pensiero ha bisogno di allenamento, non di schede o master. Ha bisogno di occasioni, di fratture, di rallentamenti. È la gioia di un insegnante che spiega e racconta, di un dialogo sincero tra amici, di un laboratorio in cui si sbaglia insieme, è una pausa in cui si vive di odori, di suoni, di colori.

Pensare non si insegna con ricette, si trasmette con presenze. Con esempi di chi sa fermarsi, dubitare, cambiare rotta. E con luoghi che proteggono la complessità come si protegge un seme raro.

Il pensiero si rianima là dove qualcuno ha ancora il coraggio di non sapere subito. Di restare qualche istante in silenzio. E poi domandare.

Stefano Pierpaoli
24 maggio 2025

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