Non siamo mai voluti crescere davvero. Abbiamo imparato presto l’arte dell’alibi e ci siamo esercitati con costanza. Alibi morali, alibi storici, alibi psicologici: bastava che ce ne fosse uno in saldo, e noi eravamo già lì, in fila, col carrello pieno. Siamo la generazione dell’autogiustificazione a ciclo continuo, della consolazione reciproca somministrata come un ansiolitico. Abbiamo sostituito la riflessione con l’auto-narrazione, la responsabilità con la retorica, la vergogna con l’ironia compiaciuta.
Abbiamo innalzato il narcisismo ad architettura sociale e l’evasione a filosofia di vita. Refrattari alla critica, sospettosi verso ogni autorità che non fossimo noi stessi, ci siamo allenati per decenni nell’arte della fuga: dalla realtà, dal confronto, dal tempo. Siamo stati i primi a ridere delle ideologie e gli ultimi a vendere i valori al miglior offerente. Abbiamo rottamato tutto, anche il buon senso. Ma soprattutto, siamo stati dei fuoriclasse della menzogna: a noi stessi, prima di tutto. Bravissimi a raccontarci che “non era colpa nostra”, che “erano altri tempi”, che “in fondo ci abbiamo provato”.
Abili simulatori di quell’ottimismo, ridicolo e tonto, di chi semplifica la complessità del reale, evadendo da ogni responsabilità di analisi. Esperti nel farlo sembrare fiducia mentre non era altro che superficialità travestita da leggerezza e conformismo d’accatto. “Io sono sempre ottimista” è stata la frase più in voga, usata per insabbiare un’ignoranza endemica e per voltarsi sempre dall’altra parte.
E così, mentre il mondo cambiava, noi ballavamo sui ritmi caraibici. Con un bicchiere in mano, una battuta scontata e uno sguardo che rincorreva un chissà. L’unica storia che ci riguardava era quella della nostra tribù in un recinto di indifferenza e idiozia. Qualcuno, tra una nevrosi e una truffa, ha fatto carriera rubando il futuro dei figli. E oggi, che siamo arrivati al capolinea di questo squallido viaggio, ci guardiamo intorno, abbiamo una paura fottuta e fingiamo indignazione.
Questo saggio è un tentativo di smettere di fingere. Di guardare in faccia il fallimento senza maquillage. Di nominare le colpe senza retrodatare la responsabilità. Non è un requiem, ma una confessione che sicuramente è tardiva ma, proprio per questo, necessaria.
La (mia) generazione dissolvente
Chi è nato nel 1964, o giù di lì, è figlio di un’epoca densa di contraddizioni ma anche di grandi possibilità. Eppure, col senno del tempo, potremmo definire la nostra come una generazione dissolvente, incapace di trasmettere simboli, strutture, visioni. Siamo stati un anello debole nella catena della storia.
La nostra infanzia è trascorsa in un’Italia in pieno boom economico, in una società ancora ancorata a valori religiosi, morali, civili. Si cresceva dentro un ordine, spesso rigido, ma chiaro. Negli anni ’70, l’adolescenza ha incontrato la contestazione, la politicizzazione, l’utopia rivoluzionaria. Si intravedeva un mondo nuovo possibile.
Lo Stato sociale, frutto delle lotte del dopoguerra, era in espansione. L’istruzione pubblica e gratuita era uno strumento di riscatto. Le classi medie crescevano. Esisteva la convinzione, pur non priva di ombre, che i figli avrebbero vissuto meglio dei padri.
La politica era ancora fortemente connotata da ideologie. Il conflitto tra capitalismo e comunismo strutturava la realtà geopolitica e dava una forma riconoscibile ai partiti, alle scelte economiche, alle alleanze. In Italia, la politica era partecipazione: il PCI e la DC rappresentavano visioni del mondo diverse, ma entrambe con radici popolari.
L’impegno era spesso militante, le sezioni di partito luoghi di elaborazione culturale e sociale.
Pur nel clima della Guerra Fredda, l’idea di progresso era viva. La tecnologia era vista come strumento di emancipazione. Si credeva ancora nel futuro. I movimenti pacifisti e ambientalisti nascevano proprio allora, nel tentativo di migliorare la civiltà umana.
La cultura era ancora percepita come bene comune. Le case editrici erano spazi di ricerca, il cinema d’autore un luogo di riflessione collettiva. Anche la televisione pubblica offriva contenuti di qualità. La cultura si legava all’identità e alla partecipazione.
Sono un figlio di una generazione cresciuta in un mondo ancora ordinato, in cui le grandi narrazioni, politiche, religiose, morali, tracciavano confini, offrivano identità, creavano appartenenza. Erano tempi in cui si poteva ancora credere che il mondo si potesse cambiare, che la storia fosse un processo aperto, e non una deriva inevitabile.
Eravamo i rampolli del boom economico, della scuola pubblica che funzionava, della televisione pedagogica, della famiglia patriarcale in lenta trasformazione. Siamo stati allevati tra regole e promesse. E quando la contestazione del ’68 e degli anni ’70 ha scosso quell’ordine, sembrava che fossimo pronti a costruirne uno nuovo, più giusto, più libero, più umano.
E invece no. La nostra generazione non ha mantenuto la promessa. L’ha tradita.
Gli anni ’80: il punto di rottura
Gli anni ’80 sono stati lo spartiacque. Non solo per l’Italia, ma per l’intero Occidente. Mentre il mondo entrava nell’era del consumismo funzionale, del denaro facile, della deregolamentazione, la mia generazione faceva la sua scelta: non cambiare il mondo, ma cambiare sé stessa per stare meglio nel mondo così com’era.
Fu una mutazione che segnò, nel senso di Nietzsche1, l’abbandono della “volontà di potenza” come slancio creativo. L’energia utopica cedette il passo a un nichilismo esistenziale mascherato da pragmatismo: il presente come unica realtà, il futuro come fastidio.
L’impegno politico lasciò il posto all’edonismo. Il collettivo fu svuotato dal trionfo dell’individualismo. I sogni di giustizia vennero sostituiti dalla retorica del successo personale. Abbiamo riso delle ideologie, le abbiamo trattate come illusioni adolescenziali. E così, nel pieno possesso delle leve culturali, economiche e istituzionali, abbiamo normalizzato il cinismo, legittimato l’ingiustizia, reso il privilegio un diritto.
Siamo passati dal desiderio di “fare la rivoluzione” alla corsa per “comprare casa”. Abbiamo disertato il futuro.
- Friedrich Nietzsche, nella sua opera La volontà di potenza (postuma), individua nella “volontà di potenza” la forza fondamentale che anima la vita, intesa come affermazione creativa e superamento dei limiti imposti dalla morale tradizionale.
Gli anni ’90-2000: il trionfo del cinismo
Negli anni ‘90 e 2000, la mia generazione è salita ai vertici. Abbiamo preso le redini della politica, dell’università, dei giornali, delle aziende. Ma anziché guidare una transizione etica e sostenibile, ci siamo adeguati al nuovo spirito del tempo: quello della competizione, della privatizzazione, della mercificazione di ogni cosa, incluso il sapere, la salute, la scuola.
Abbiamo ridicolizzato il pensiero critico, sostituendolo con una comunicazione priva di ancoraggio etico. In termini di Hans Jonas2, abbiamo abdicato alla responsabilità verso le generazioni future, riducendo il nostro orizzonte morale all’utile immediato.
Il principio responsabilità è stato travolto dal principio di convenienza.
Abbiamo svuotato le parole, facendo della politica uno spettacolo, della cultura un prodotto, della giustizia sociale un’utopia fuori moda. Abbiamo lasciato che l’intelligenza diventasse servile e la memoria collettiva si polverizzasse sotto il peso del presente continuo.
Ci siamo messi comodi sul ponte del Titanic mentre l’iceberg si avvicinava.
- Hans Jonas, in Il principio responsabilità (1979), propone un’etica per la civiltà tecnologica fondata sulla tutela delle generazioni future, sottolineando il dovere morale di agire tenendo conto degli effetti a lungo termine delle nostre scelte.
Il XXI secolo: la frantumazione definitiva
Nel XXI secolo, tutte le crisi annunciate sono esplose. Crisi finanziarie, crisi climatiche, crisi democratiche, pandemie globali. Ogni segnale di collasso è stato ignorato, minimizzato, reso spettacolo o monetizzato.
E mentre il mondo bruciava, noi eravamo impegnati a riformare i curriculum scolastici secondo le logiche aziendali, a trasformare l’università in una catena di montaggio, a vendere ai nostri figli l’illusione che “basta crederci” per riuscire.
La civiltà si è frantumata in milioni di solitudini digitali. La tecnologia, che avrebbe potuto liberarci, ci ha resi dipendenti, ansiosi, intercambiabili. Le guerre, che sembravano relitti del passato, sono tornate al centro della storia. L’ambiente ci presenta il conto di decenni di sfruttamento sistematico.
La rottura non è solo morale, ma storica. La nostra generazione è quella che ha interrotto “la trasmissione della fiaccola”, per dirla con Walter Benjamin3. Abbiamo disattivato i canali simbolici della continuità. I nostri figli non ricevono più un’eredità, ma solo detriti culturali, frammenti sparsi senza senso. L’onda d’urto di questa discontinuità è ancora in espansione.
La mia generazione si è fatta trovare senza strumenti, senza idee, senza volontà.
Abbiamo fallito su tutta la linea.
Cultura e valori: la grande resa
Il fallimento più grave, tuttavia, è stato culturale. Abbiamo rinunciato a pensare il futuro. Abbiamo venduto la cultura al mercato, l’etica alla convenienza, la bellezza all’intrattenimento. L’intellettuale è diventato opinionista, l’insegnante è stato umiliato, il libro è diventato un gadget.
I giovani non ci guardano più con rispetto e fanno bene. Perché non abbiamo saputo trasmettere nulla che valesse la pena raccogliere. Non un’idea forte e nemmeno un valore non negoziabile. Abbiamo consegnato loro un mondo esausto e la speranza più saggia è che non ci seguano.
- Walter Benjamin, nei suoi scritti storici e filosofici, riflette sulla crisi della trasmissione culturale. La metafora della fiaccola, che non viene più passata tra le generazioni, richiama la frattura simbolica nel rapporto con la tradizione (Angelus Novus, Tesi sul concetto di storia).
La fine è già cominciata
Il nostro fallimento più profondo è ontologico. Abbiamo smesso di credere in ciò che ci fondava: istituzioni, riti, racconti.
Non abbiamo saputo sostenere le strutture che ci hanno permesso di diventare ciò che siamo. Siamo una generazione che ha dissolto la propria possibilità di essere ricordata.
I “luoghi della memoria”, secondo Pierre Nora4, sono ora spazi vuoti: musei del nulla, archivi digitali abbandonati. La nostra identità si è liquefatta nell’istantaneità.
Ora che siamo al crepuscolo della nostra parabola, la verità si impone con una forza che non lascia scampo: la nostra generazione ha avuto la possibilità di cambiare la storia, e ha scelto di adattarsi alla sua deriva.
Il futuro che incombe non è solo incerto: è inquietante. Le guerre aumenteranno, l’acqua finirà, le disuguaglianze cresceranno. I regimi autoritari si diffonderanno con la maschera della democrazia. Il pianeta diventerà ostile, il clima caotico, l’economia impazzita. Le nuove tecnologie, senza etica, saranno strumenti di controllo più che di liberazione.
E quando il mondo chiederà conto del disastro, come sta già facendo, saremo talmente svuotati che cercheremo un altro nascondiglio. Diremo che non lo sapevamo e che la colpa è di qualcun altro.
Abbiamo visto arrivare la tempesta. Avevamo strumenti per fermarla. Ma abbiamo preferito cambiare canale.
Siamo stati la generazione del presentismo radicale5, incapace di proiettare valori oltre il proprio orizzonte. E ora che il tempo si accartoccia su sé stesso, ci troviamo davanti a un futuro che non è più eredità ma minaccia. Il nostro giudizio non verrà dal passato, ma da un futuro che non ci perdonerà. Un giudizio forse muto, eppure inappellabile.
È l’apocalisse che ci siamo costruiti da soli. E non ci sarà redenzione.
- Pierre Nora, curatore del progetto Les Lieux de Mémoire (1984–1992), analizza come la memoria collettiva sia passata da una trasmissione organica a una conservazione istituzionale, perdendo vitalità e radicamento nell’esperienza vissuta.
- Il concetto di presentismo radicale è stato elaborato da storici e filosofi contemporanei per descrivere una cultura incapace di proiettarsi nel futuro e di relazionarsi con il passato. Si veda in particolare François Hartog, Régimes d’historicité: Présentisme et expériences du temps (2003), dove l’autore descrive il predominio assoluto del presente come cifra dell’esperienza contemporanea del tempo.
Ricominciare dalla frattura
E tuttavia, è proprio dalla consapevolezza della frattura che può nascere un possibile riscatto. Riconoscere di non aver lasciato eredità non significa accettare la condanna all’infertilità storica, ma potrebbe essere il primo gesto di una nuova responsabilità. Il nostro fallimento non ci esime dal dovere di tentare ancora, di testimoniare, di preparare il terreno per una forma diversa di trasmissione. Forse è giunto il tempo di ridefinire il significato stesso di eredità: non più patrimonio materiale o identitario da conservare, ma gesto di apertura, atto di consegna simbolica verso l’ignoto.
In un tempo dominato dall’individualismo radicale, occorre ricostruire legami di continuità collettiva; dentro l’accelerazione cieca del presente, serve riscoprire la necessità della durata, della memoria che sedimenta e si trasmette. Abbiamo vissuto l’abbondanza informativa come rumore, ma forse proprio lì si cela una sfida: distinguere ciò che vale la pena di essere custodito e tramandato. Le forme classiche della trasmissione culturale sono implose, ma potrebbero emergere nuove eredità non riconosciute: pratiche di cura, gesti di resistenza quotidiana, micro-narrazioni che risalgono la corrente dell’oblio.
Forse la nostra generazione può ancora compiere un ultimo atto non inutile: preparare il terreno perché chi verrà dopo possa ricominciare, non da noi, ma nonostante noi. Lasciare, se non un’eredità, almeno un vuoto parlante. Non monumenti, ma fenditure: spazi aperti dove possa inserirsi una nuova coscienza del tempo, della responsabilità, della storia. Perché ogni civiltà si rigenera solo quando riesce a riconoscere le proprie macerie, e da lì, iniziare a costruire altro.
Stefano Pierpaoli
22 maggio 2025
📚 Bibliografia
- Benjamin, Walter. Tesi sul concetto di storia. In Angelus Novus. Torino: Einaudi, 1962.
- Hartog, François. Régimes d’historicité: Présentisme et expériences du temps. Paris: Seuil, 2003.
- Jonas, Hans. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica. Torino: Einaudi, 1990.