Editoriali
Stato di negazione
Separazioni come terapia
e autoassoluzione come riforma
La separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri è stata approvata. Applaudono soddisfatti, convinti di aver risolto un problema. Non si accorgono di averne creato uno strutturale. O forse se ne accorgono benissimo.
Platone distingueva tra nomos e dikaiosyne: la legge scritta e la giustizia come principio. La legge può essere formalmente corretta e sostanzialmente ingiusta. Ma è promossa da un sovrano o da un governo che la ritengono indispensabile per realizzare il loro progetto politico. Esiste quindi il rischio che essa possa essere costruita appositamente per impedire alla giustizia di manifestarsi. È quello che accade quando un sistema politico decide ad esempio che il problema non è la corruzione, ma chi la indaga.
Hegel aveva compreso che lo Stato moderno si fonda sulla separazione dei poteri non per efficienza tecnica, ma come meccanismo di autocontrollo: il potere deve limitare se stesso, altrimenti divora tutto. La magistratura indipendente non è un optional democratico. È l’unico dispositivo che permette allo Stato di riconoscere le proprie patologie. Indebolirla significa scegliere deliberatamente un’autoassoluzione arbitraria (ho detto autoritaria?).
L’Italia non è un paese normale. È l’unico paese occidentale dove le organizzazioni criminali non sono marginalità sociali ma sistemi di potere paralleli, intrecciati stabilmente con politica ed economia.
È il paese dei 54 punti su 100 nell’indice di corruzione percepita, dove praticamente ogni mese un ente locale finisce sotto inchiesta, dove la competenza è diventata un imbarazzo e l’incompetenza una credenziale.
In questo contesto, depotenziare la magistratura non è una riforma. È un suicidio istituzionale mascherato da riforma costituzionale.
La retorica ufficiale di regime recita: “Separare per garantire imparzialità”. Ma l’imparzialità non si costruisce frammentando il contropotere, si costruisce rafforzandone l’indipendenza. Rendere i pubblici ministeri più vulnerabili alle pressioni politiche in un paese dove politica e criminalità dialogano da decenni non è lungimiranza. È una resa del potere alla sua ombra più fosca ed è la complicità strutturale a un meccanismo deliberato e sistemico.
Nietzsche distingueva tra morale dei signori e morale degli schiavi. I signori creano i valori, gli schiavi li subiscono. Questa riforma appartiene alla morale dei signori: chi detiene il potere decide quali controlli tollerare. E ha deciso che la magistratura indipendente è un controllo che non vuole più subire.
In parole povere: i protetti godranno di maggiori coperture in caso di indagini a loro carico – nel nostro Parlamento e addirittura in seno al Consiglio dei Ministri abbiamo casi eclatanti – mentre milioni di cittadini saranno oggettivamente più esposti ad abusi di potere e ritorsioni politiche.
Il paradosso è che questa scelta si rivelerà un boomerang anche per chi l’ha voluta. Perché quando si smantellano i contrappesi istituzionali, non si sa mai chi arriverà dopo ad approfittarne. Siamo grandi esperti in fatto di lottizzazioni.
C’è poi un altro aspetto fino a oggi poco discusso. Il clima pre-bellico e la forte instabilità geopolitica che attraversiamo – realtà indiscutibili, non opinione – rende tutto più pericoloso. Un sistema giudiziario indebolito non è solo vulnerabile alle pressioni politiche interne. È esposto agli sconfinamenti di potenze straniere, alle infiltrazioni, alle operazioni di condizionamento.
Gli stessi che oggi applaudono questa riforma potrebbero scoprire domani che hanno costruito la gabbia in cui verranno rinchiusi. Ma a quel punto sarà tardi.
Foucault aveva ragione: il potere moderno non si manifesta attraverso la repressione diretta, ma attraverso la gestione dei dispositivi di controllo.
Non serve eliminare fisicamente i magistrati scomodi – lezione tragicamente appresa nel 1992 – basta neutralizzarli istituzionalmente. Rendere le inchieste più faticose, i percorsi più tortuosi, le carriere più ricattabili.
L’esito che sembra si stia scrivendo è un sistema che può operare senza lo specchio della legalità che gli ricorda cosa è diventato.
Alla fine, questa riforma dice una cosa semplice sull’Italia del 2025: scegliamo di voltarci dall’altra parte. Abbiamo deciso che è più comodo indebolire chi documenta il disfacimento piuttosto che affrontarlo. Che è più conveniente frammentare il contropotere piuttosto che rispondere delle proprie responsabilità.
È la scelta di un paese che ha smesso di credere nella possibilità di essere migliore. Che ha normalizzato la corruzione al punto da considerare patologica non la corruzione stessa, ma chi cerca di combatterla.
Platone, nella Repubblica, descriveva la degenerazione dalla democrazia alla tirannide come un processo graduale, quasi impercettibile. Non servono colpi di stato. Bastano piccoli aggiustamenti istituzionali, presentati come riforme tecniche, approvati con maggioranze risicate in Parlamenti evanescenti.
La separazione delle carriere è uno di questi aggiustamenti e avrà effetti devastanti qualora gli Italiani, nel referendum confermativo, non avvertissero l’importanza di ribellarsi. Non sarà una scelta di parte ma una garanzia per le future generazioni.
Altrimenti, tra vent’anni, quando qualcuno si chiederà come è stato possibile arrivare al punto in cui ci troveremo, rivelerà questa legge tra i punti di snodo. E si chiederà come abbiamo fatto a non capire. A non opporci.
Eleggiamo figure di livello, eliminiamo le mafie, riduciamo la corruzione. Poi casomai parleremo anche di separazione delle carriere dei magistrati.
Perché in Italia, da sempre, il problema non è mai stato il malaffare. È sempre stato chi lo denuncia.
Stefano Pierpaoli
31 ottobre 2025
Stefano Pierpaoli
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