Il gregge senza pastore

Ma con molti padroni

Oggi il mio ultimo articolo prima di una pausa obbligata. Racconta un’urgenza che è personale, ma soprattutto collettiva: la necessità di tornare umani, in un tempo che ci vuole docili e resilienti. Non amo parlare di me né usare parole di circostanza. Quello che offro qui è ciò che ho sempre cercato di fare: pensare con spirito critico, analizzare con la maggiore obiettività possibile, scrivere con onestà. Nascondersi nel silenzio è omertà da subalterni. Oggi più che mai.

Un incidente di percorso

Nei mesi scorsi questa urgenza è diventata più chiara, più pressante. Un incidente di percorso mi ha spinto a lavorare con più continuità, a dare voce alle mie riflessioni sulla nostra contemporaneità. Questa esperienza sarà un confine che verrà oltrepassato, comunque vada e qualunque sia il suo esito. E va bene così. Nessuna paura.

È molto bello vivere con la voglia di comunicare qualcosa che possa contare davvero.
Detesto le attese e in certi casi fare la coda sarebbe insopportabile. In questo caso sono stato fortunato: sono 001, il primo tra i primi. Anche 007 è arrivato dopo. Sono il migliore agente segreto che esista. Abbastanza tradito dal mio paese, ma non è ancora finita.
Scrivo perché è uno dei miei vizi e perché sono convinto che possa servire a qualcosa.
Scrivo perché amo frequentare i silenzi che sanno muovere le coscienze.
Scrivo perché coltivo con amore un sogno rivoluzionario: il futuro o sarà quello di una società socialista o non sarà.
Vorrei chiudere la serie di brevi saggi che ho pubblicato, provando a tirare i fili di quello che ho descritto.

Le fatali ridondanze hanno un motivo tutt’altro che marginale. È un’urgenza che avverto e che spero arrivi. È un dialogo tra coscienze per allontanare il rischio di diventare resilienti, come ci stanno insegnando a essere.

Ho paura di un tempo precipitato nel pre-illuminismo. Di una società che si muove smarrita, come se la Ragione kantiana fosse una categoria del passato.
Ho paura della paura degli altri e ogni volta che percepisco che ci si trascina nella storia come se il futuro fosse un destino, mi batto per tracciare sentieri diversi. È una lenta, entusiasmante costruzione nella quale si spera di trovare altre anime che aggiungano altre strade. Nuove strade.

Resilienza: virtù del gregge

Il pallone preso a calci durante una partita, salta, rimbalza, viene colpito e respinto. È l’immagine aderente al resilire (dal latino, “saltare indietro”, “rimbalzare”), gesto che conosciamo talmente bene da non farci più caso.
Ma la resilienza è un termine ancora più appropriato se riferito al metallo, in quanto capace di assorbire energia d’urto senza spezzarsi.
Siamo soggetti esposti alle pedate e ad altri impatti violenti. Difficile stabilire se avrà successo, ma è un bene che veniamo addestrati a farci massacrare. Siamo palloni e pezzi di ferro che a qualcosa potrebbero servire.

La descrivono come virtù e la celebrano come atto di dignità. Viene infilata a forza nei processi per la sopravvivenza e mascherata da miracoloso sostegno finanziario (che non vedremo mai).

La resilienza è docilità funzionale, utile rassegnazione, organica accettazione. È il segno di un gregge addestrato a rimanere in piedi in mezzo alla tempesta, senza chiedersi da dove arrivi e chi l’abbia provocata. Una mandria che si accontenta della recinzione perché trova sia rassicurante e protettiva.
È l’arte dei padroni, dei politici, dei giornalisti e dei notabili. È l’arte degli artisti contemporanei. La si insegna nei corsi aziendali, la si inculca nelle scuole, la si vende nei talk show. Si incontra facilmente al cinema e a teatro. Ai concerti rap, il ritmo dei disperati schiavi, esprime la sua gloria.

Grande invenzione la resilienza, è la soluzione perfetta: subdola, corrosiva e soporifera. Rende sopportabile l’ingiustizia, normale l’umiliazione, inevitabile la catastrofe.

Ben saldi nelle nostre spaventate incertezze, preferiamo scegliere di non oltrepassare, non cercare e, possibilmente, non capire. Troppo permalosi per accettare il giudizio della storia, questa insolente sconosciuta. Troppo narcisi per confrontarci con una realtà che non sia quella dello specchio deformato acquistato su Amazon. Quello in cui siamo sempre i migliori.

Essere ribelli sarebbe inopportuno e coscienti sarebbe pericoloso. Per non parlare dell’essere liberi: un fatto davvero intollerabile. Accetteremo la prossima crisi come affrontiamo il cambio di stagione e se continueranno a toglierci lavoro e dignità, faremo spallucce, perché “tanto che vuoi fare?”.

E se questa “prossima crisi” si presentasse sotto forma di tsunami tecnologico per risolvere se stessa e anche il me stesso e il noi stessi?
Nulla di più facile e immediato. Niente di più scontato e al contempo inevitabile e terribile.

I nostri estinti Dei

Friedrich Nietzsche è una guida narrativa di formidabile valore e di profonda attualità, ma è chiaro che determini una postura scomoda: quella di chi rifiuta l’illusione consolatoria e sceglie di guardare in faccia il disastro per immaginare e costruire ciò che verrà dopo.
Nietzsche parlava al suo tempo con la stessa urgenza che oggi percepiamo: le masse anestetizzate, la morte di Dio, la decadenza delle istituzioni, l’avvento del nichilismo come condizione universale. Ogni fenomeno che osserviamo oggi – la spettacolarizzazione della politica, la manipolazione mediatica, la regia occulta della geopolitica, la religione della tecnica – trova una radice, un’eco, un archetipo nelle pagine di Zarathustra (e in quelle de “La gaia scienza”).

Il “gregge senza pastore”[1] nietzschiano è il pubblico televisivo, il popolo dei social, la schiera dei gruppi chat. È il mondo che vota un leader e osserva i potenti come fossero divinità in consesso mentre indirizzano il fato dei mortali. È l’ammasso informe delle guerre tra poveri.
È un’umanità sdraiata, suo malgrado, sotto gli influssi del climatizzatore sociale.
Guarda mille notizie o messaggi o immagini, ma non legge, non ascolta, non assimila. Ignoranza e morbosità diventano strumenti complementari.

Quel che un tempo facevano i giornali scandalistici è oggi regola dei grandi quotidiani, dei telegiornali, dei talk show. La macchina semplifica per confondere, rappresenta per nascondere.
I social network hanno portato a termine il loro compito: addestrare la specie a reagire d’impulso e cedere alla resa perpetua del pensiero delegato.

Non siamo semplici palle e barre di metallo, siamo anche rapidi, elementari e sintetici. Ideali per servire a qualcosa o servire qualcuno.

La “morte di Dio” in Nietzsche, significa anche la fine della fiducia nelle grandi narrazioni universali (religiose, metafisiche) che orientavano la vita individuale e collettiva. Nell’epoca contemporanea, assistiamo a un crollo di fiducia nelle istituzioni, nella politica tradizionale, nelle ideologie e persino nella scienza come unica verità assoluta.

Una crisi simile a quella descritta da Nietzsche, dove l’uomo moderno si trova “senza pastore”, in balia di un mondo senza guida.

Oggi il cerchio si chiude. Ci troviamo senza strumenti, senza tempo, senza vero potere di opposizione.
Possiamo cambiare volto alle inutili marionette manovrate da altre mani – Meloni, Schlein, Conte, o chi verrà dopo – ma il teatrino resterà lo stesso. Un teatro in cui le decisioni si prendono dietro il sipario e a noi tocca solo applaudire o indignarci, a comando.
I grandi sommovimenti in atto hanno un punto di caduta che si chiama morte dello stato sociale. È ciò che serve ai fondi di investimento. Più riarmo, più dazi, più vincoli fiscali e sempre meno stato sociale. Più bisogno di assicurazioni, più premi da incassare, più asset da gestire.

Così, mentre a milioni viene chiesto di stringere la cinghia, i fondi privati ingrassano. In questa nuova economia della fragilità, la malattia diventa business. I medici di base parlano sempre meno, trasformati in distributori automatici di ricette specialistiche. Ma chi li sostituirà sta già bussando alla porta.

[1] Il gregge senza pastore: la condizione descritta dallo Zarathustra. Una massa, privata di Dio e incapace di creare nuovi valori, che persiste nella sicurezza mediocre del gregge, ma priva di guida. Un ritratto dell’“ultimo uomo”, che teme la libertà più del giogo e preferisce il sonno della coscienza al rischio del pensiero.

Lo specchio delle brame

Con i social ci siamo esercitati alla semplificazione. Ora siamo pronti per l’oblio ragionato.
L’intelligenza artificiale non ci dominerà con la forza, ma con la soddisfazione. Ci offrirà l’illusione della lucidità. Ci libererà dalla fatica del dubbio, dalla noia dell’approfondimento, dal peso delle decisioni vere.

Sarà l’intelligenza artificiale a scrivere il nostro destino. Letteralmente.
Conosce le parole, predice le reazioni, ottimizza le scelte.

Comunicheremo con lei più di quanto abbiamo fatto nei commenti dei social. Più disponibile ed empatica della maggior parte di noi, sarà il punto di riferimento imprescindibile.
È troppo compiacente? Forse, ma è più raffinata e discreta di quelli che scrivono continuamente: “meraviglioso!”, “geniale!”, “fantastico!” e oltretutto, a differenza dei professionisti della lusinga all’amatriciana, è capace ad argomentare.

L’IA non è una minaccia. Non lo è in presenza di persone sagge ed equilibrate. Educate emotivamente e sentimentalmente mature. Colte per saper interpretare la realtà e in possesso di conoscenze ampie e articolate. Ricche di parole in un lessico vasto e multiforme: i “performanti” e gli “asfaltatori” si troveranno male, perché il terreno sarà riservato a individui validi ed esperti.
Quindi non ci fagociterà, ma solo se il peso specifico delle nostre vite, delle nostre relazioni e dei progetti esistenziali che portiamo avanti, sarà maggiore della sua potenza, smisurata e destinata a crescere sempre di più.

La sua portata computazionale, la capacità di apprendere e adattarsi e la sua pervasività rappresentano una sfida senza precedenti per l’autonomia e l’identità umana.
In questo contesto, il “gregge senza pastore” non avrà nessuna possibilità di successo.
Metterà alla prova il nostro grado di autenticità, misurerà la facoltà di creazione di significato, solleciterà le nostre dimensioni creative e trasformative. Laddove esistano le condizioni di farlo, amplificherà la nostra tendenza alla delega.
Interrogherà le nostre solitudini e ci garantirà le parole giuste espresse attraverso un lessico di qualità.

Il web rappresenta oggi la forma più scientificamente sofisticata ed efficace di assoggettamento e sfruttamento delle masse. Sorveglianza, manipolazione, lucro, controllo politico e creazione di tendenze sono il combinato disposto di un meccanismo ben collaudato attraverso l’uso dei social network.
C’è solo un piccolo particolare: dovremo moltiplicare questa forza pervasiva per milioni di volte.
L’IA cresce in potenza e diffusione a una velocità infinitamente superiore alla capacità di regolazione sociale e culturale. Noi le chiediamo la meta migliore per andare in vacanza. Lei sta già entrando nei percorsi etici che dirigono le nostre comunità.

Il “gregge senza pastore” sarà escluso da ogni processo riguardante l’autonomia della persona. Lo è già oggi, ma potrebbe assumere ripercussioni ben più drammatiche.
Al contempo, l’avvento dell’IA potrebbe determinare condizioni di straordinaria emancipazione e di crescita sociale. Dipenderà dalla nostra capacità di raccogliere la sfida, perché di questo si tratta, e reinserire un fattore che per molti decenni abbiamo lasciato scivolare sempre più in basso.

Tornare umani

L’Übermensch, l’oltreuomo annunciato da Zarathustra, non è un’entità mitica o irraggiungibile, ma un modello di individuo capace di auto-superamento, di creazione di nuovi valori e di resistenza autentica alle dinamiche di omologazione e delega. L’oltreuomo è colui che, di fronte al nichilismo e alla crisi delle grandi narrazioni, non si arrende all’oblio o alla passività, ma forgia con coraggio e lucidità un nuovo senso, una nuova identità, una nuova umanità.

Potremmo definirla Ipertradizione oppure Cybertradizione, sta di fatto che gli “usi e costumi 4.0” sono una forma di tradizione costruita artificialmente attraverso i media e le dinamiche di potere contemporanee. Si struttura con rapidità e diventa in breve riferimento culturale, popolare ed educazionale. Essa rappresenta una nuova modalità di trasmissione e consolidamento di valori e comportamenti, capace di influenzare profondamente le società globali contemporanee, pur essendo priva della lunga sedimentazione storica delle tradizioni classiche.

Il “gregge senza pastore” obbedisce agli impulsi stordenti dei linguaggi digitali, del cosiddetto “storytelling” collettivo, del consumismo compulsivo della narrazione web, della formazione iper-connessa e interattiva. Si perde per perdersi ancora di più. Si riconosce solo nelle ritualità omologanti monodimensionali.
Fino a cinquant’anni fa, le forme di ribellione ricavavano una motivazione significativa dallo scontro, ad esempio, con i valori tradizionali. Oggi, un’operazione mirata a ribaltare simboli o liturgie giunte da lontano, sarebbe quanto meno grottesca.
La tradizione iper-moderna è un sistema sintetico di riferimenti culturali, simbolici e normativi che polverizza memorie, incendia esperienze e annienta gli orizzonti di senso. È rapida, liquida, invadente.
La cyber-tradizione non concede il tempo per riconoscere valori né identità. Li rigenera in un attimo.

Ed è questo il primo passo da compiere. Interrogarci sul “chi siamo” o sul chi dovremo tornare a essere per riconoscerci e riconquistare un’identità che ci appartenga. La certezza del sé è la pietra angolare su cui costruire un pensiero critico e laterale. Non il pensiero che urla o si compiace, ma quello che scava, ascolta, connette.
Quello delle menti vivaci che si incontrano per unire le idee in un percorso etico che costituisce la forza della comunità, la sua armonia e il suo benessere.

Servirà molto coraggio, perché il nemico è potente. E gli abbiamo concesso fin troppo tempo.
E servirà tenacia individuale. Donne e uomini capaci di riconoscere le proprie paure, di affrontare le proprie crepe, di tenersi stretta la propria coscienza. Rilanciare e oltrepassare, per arrivare dove si ricompongono i legami, non per affinità, ma per necessità storica.
Sarà una strada impervia. Ma non impossibile.
Tornare umani non è uno slogan. È un’esigenza radicale, una scelta politica, una forma di intima resistenza.
Provare a percorrere un sentiero simile a quello che porta all’Oltreuomo è un imperativo dal quale dipende la nostra stessa sopravvivenza.

Sarà importante costruire un progetto che sappia superare se stesso. Travalicare l’ovvio per pretendere il giusto. Oltrepassare il bisogno apparente per raggiungere il diritto essenziale.
Tra poco ci illuderemo di essere già a bordo di un’Enterprise, con tutto a portata di mano. Ma sarà bene pensare alla comunità terrestre, mentre il Comandante Kirk ordina il teletrasporto.

Io, per parte mia, ora mi fermerò per un po’. Ma è un viaggio che non si interrompe.
Se qualcosa di ciò che ho scritto potrà essere raccolto, discusso, rilanciato, allora ne sarà valsa la pena.

“Bisogna avere un caos dentro di sé per generare una stella danzante”[2]. Il caos c’è, nelle nostre vite come nelle nostre società. La stella danzante dobbiamo ancora trovarla.
Ma forse è proprio questo il compito di chi resta: non lasciarsi paralizzare dalla notte, ma prepararsi all’aurora. È una luce che appartiene a tutti, soprattutto alle giovani generazioni.
“Tornare umani” ci permetterà di attraversare la notte nel migliore dei modi. E per chi verrà dopo, per chi continuerà a camminare nel futuro, è l’unica eredità che conta.

Noi siamo qui, adesso, a preparare ciò che verrà dopo. Con la lucidità di chi sa che tutto finisce e la tenacia di chi sa che qualcosa deve continuare.

Questo è il nostro compito. Questo è ciò che resta quando tutto il resto sembra svanire.

Non so se questo testo è un passaggio, un invito o un testimone.
Ma so che tornare umani è l’unico modo per costruire strade e andare avanti.
Anche adesso. Soprattutto adesso.
Nessuna paura.

Stefano Pierpaoli
14 luglio 2025

[2] Aforisma tratto da Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche, simbolo della tensione creativa che nasce dall’inquietudine e dal disordine interiore, unica forza capace di generare un nuovo inizio.

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