Caso studio
Cultura senza visione
il caso del cinema italiano come specchio della crisi democratica nell’era dell’automazione
Introduzione: dal settore alla società
Il caso che segue parte da una vicenda specifica – il mio intervento nel settore cinematografico italiano – ma è tutt’altro che settoriale. Esso rivela dinamiche cognitive, istituzionali e culturali che riguardano la società tutta, e che si stanno acuendo nell’epoca dell’automazione e dell’intelligenza artificiale.
Nel modo in cui il cinema italiano ha reagito alla proposta di un rilancio culturale si possono infatti riconoscere tutti i tratti distintivi della contemporaneità in crisi: rinuncia alla visione di lungo periodo, delega cieca agli strumenti, feticismo tecnico, scomparsa della progettualità collettiva.
Questa storia parla quindi di cinema, ma parla a tutti. E mostra cosa accade a una comunità – culturale o civile – quando smette di pensare il proprio futuro.
Il caso studio: marginalizzazione della visione
Un caso di marginalizzazione culturale nel sistema italiano
Nel corso della mia esperienza nel settore cinematografico italiano, ho avuto l’occasione, e la responsabilità, di presentare una serie di proposte strutturali per riformare in profondità un comparto da anni in evidente crisi.
La vicenda che ne è seguita, culminata in una marginalizzazione sistematica delle istanze proposte, consente di individuare le vere ragioni di questa crisi.
Non si tratta semplicemente di una mancanza di risorse o di opportunità – pur reali – ma di qualcosa di più radicato: l’assenza di visione. Un’incapacità strutturale, diffusa e trasversale, di elaborare strategie di ampio respiro, orientate al medio e lungo periodo. Un fallimento culturale prima ancora che economico o politico.
Un sistema senza orizzonte
Il cinema italiano vive oggi una condizione paradossale: da un lato, beneficia di strumenti di sostegno pubblici non irrilevanti; dall’altro, continua a perdere centralità, pubblico e capacità innovativa. Le cause principali sono evidenti e inconfutabili:
- Fondi pubblici insufficienti e distribuiti in modo disomogeneo;
- Mancanza di spazi produttivi e distributivi per le piccole imprese indipendenti;
- Calo drastico del pubblico in sala, con una concorrenza impari da parte delle piattaforme digitali;
- Assenza di coesione interna alla filiera, segnata da conflittualità, autoreferenzialità e disinteresse per la dimensione sistemica.
A fronte di questa situazione, ho promosso un insieme di proposte articolate, tese a introdurre una discontinuità strategica nel modo in cui il settore si pensa, si organizza e si proietta nel futuro.
Le proposte: una visione alternativa
Il cuore delle proposte era l’idea di rilanciare il cinema indipendente come spazio di sperimentazione culturale, inclusione e pluralismo. Nello specifico:
- Definire in modo chiaro e condiviso il concetto di “cinema indipendente”, per garantirgli riconoscibilità, tutele e rappresentanza;
- Distinguere concettualmente e normativamente il “cinema” dall’”audiovisivo”, evitando sovrapposizioni fuorvianti e semplificazioni;
- Garantire trasparenza e criteri verificabili nell’assegnazione dei fondi pubblici;
- Potenziare l’autonomia produttiva e distributiva delle piccole imprese, con incentivi mirati per le produzioni a basso budget;
- Rendere più efficaci i percorsi formativi e inclusivi per i nuovi talenti, evitando autoreferenzialità e cooptazione;
- Garantire tutele adeguate ai lavoratori del settore, promuovendo un vero modello di welfare culturale;
- Creare o rafforzare un circuito di sale dedicate alla distribuzione delle opere indipendenti, come condizione minima per un reale pluralismo dell’offerta.
Ma ciò che rende questa vicenda davvero emblematica non è solo il contenuto delle proposte o la loro mancata accoglienza, bensì il tipo di reazioni che hanno suscitato e ciò che queste rivelano sul nostro modo di intendere la cultura oggi.
Il dibattito sterile: il totem del Tax Credit
Nonostante la coerenza e la concretezza delle proposte, il confronto settoriale si è rapidamente ridotto a un solo tema: il Tax Credit. Questo strumento, concepito come misura fiscale a sostegno delle imprese, è stato assunto come unico asse del dibattito, diventando una sorta di divinità ideologica. Tutto il resto – identità culturale, progettualità, accesso democratico alla produzione e alla distribuzione – è stato espunto dal discorso collettivo.
Il risultato? Uno stallo paralizzante, in cui il terreno di confronto è completamente sbilanciato a favore dei grandi player, gli unici in grado di negoziare efficacemente con le istituzioni. In questo contesto, il cinema indipendente viene schiacciato su un terreno tecnico-finanziario in cui non può competere, e ogni proposta alternativa viene percepita come astratta, irrilevante o, peggio, fastidiosa.
Il problema reale: una deriva cognitiva e culturale
Questa vicenda ha svelato un nodo ben più profondo: il deficit cognitivo e culturale che attraversa buona parte della filiera cinematografica italiana. I rappresentanti del settore hanno manifestato, con poche eccezioni, carenze che non sono solo tecniche o informative, ma intellettuali nel senso più pieno del termine. In particolare:
- Analfabetismo funzionale: incapacità di leggere e comprendere proposte complesse, sistemiche, dotate di visione d’insieme.
- Presentismo radicale: attenzione esclusiva per ciò che si crede possa produrre vantaggi immediati, senza capacità di costruire prospettive a medio termine.
- Ipernormalizzazione: accettazione passiva dello status quo come unica realtà possibile, con conseguente sterilizzazione del dissenso.
- Attitudine alla delega: rinuncia alla responsabilità culturale e progettuale, in favore di una logica puramente amministrativa e burocratica.
- Individualismo competitivo: frammentazione del settore, incapacità di fare fronte comune, conflittualità tra attori deboli.
- Pensiero binario: riduzione di questioni complesse a dicotomie superficiali (destra vs sinistra, pubblico vs privato, riforma A contro riforma B).
Questi tratti, che riflettono fenomeni più ampi della società italiana contemporanea, impediscono ogni reale trasformazione. Il problema non è che manchino le risorse: manca la capacità di immaginare un altro ordine delle cose. Il sistema è diventato refrattario al cambiamento non perché manchino soluzioni, ma perché non sa più pensare il cambiamento.
Una posta in gioco più alta
È proprio su questo punto che si gioca il futuro del cinema italiano, e in particolare di quello indipendente. Non basta correggere norme, modificare regolamenti o aumentare le percentuali di incentivo. Serve una visione culturale forte, capace di restituire al cinema il suo ruolo originario: quello di spazio critico, specchio della società, veicolo di immaginario, esercizio di libertà. Un sistema che concentra tutto il proprio dibattito sulla fiscalità d’impresa abdica alla propria funzione culturale, si auto-riduce a contenitore commerciale e perde il proprio senso nel tempo.
Il caso di cui ho voluto dare testimonianza non riguarda soltanto me, né solo un singolo segmento della filiera. Riguarda un intero modo di concepire il rapporto tra cultura e società, tra arte e istituzioni, tra visione e organizzazione. Finché non si avrà il coraggio di uscire dalla logica del breve termine, del conformismo premiante e della contabilità come unico linguaggio, il cinema italiano continuerà a perdere rilevanza, a essere colonizzato da logiche esterne e a rimuovere il proprio compito più alto: quello di dare forma al futuro.
Cultura, delega e regressione: il cinema come metafora civica
Il cuore del problema non è tecnico, ma culturale e democratico: la filiera cinematografica ha mostrato lo stesso disorientamento che si riscontra in molte istituzioni pubbliche e comunità civili oggi. Di fronte a un cambiamento epocale, si reagisce con tratti che sono già stati osservati nel caso studio (al Punto 6) e che ora mi limiterò a definire come “pattern civici ricorrenti”.
Questo non accade solo nel cinema. È ciò che vediamo ogni giorno nelle scelte pubbliche, nel rapporto tra cittadini e politica, tra utenti e algoritmi, tra individui e futuro.
L’intelligenza artificiale come nuova forma di delega culturale
La cultura del Tax Credit – vista come unica chiave di sopravvivenza – ha la stessa forma mentale dell’accettazione acritica dell’IA come guida delle scelte pubbliche o personali. In entrambi i casi, lo strumento diventa fine, e la cittadinanza abdica al proprio compito: progettare, discutere, immaginare.
Il caso del cinema dimostra come non sia l’IA in sé il problema, ma la sottrazione dell’umano dai processi decisionali. Quando il dibattito si riduce a ciò che può essere calcolato, quantificato o automatizzato, la cultura muore, la democrazia si svuota, il cittadino smette di esistere come soggetto attivo.
Il dito, la luna e la cittadinanza algoritmica
L’articolo “Il dito, la luna e l’algoritmo” ci ricorda che l’IA è un dito, non la luna. La luna è l’umano, la cultura, la visione. Se guardiamo solo il dito, perdiamo l’oggetto vero della riflessione.
Il cinema italiano, in questo senso, non è un’eccezione, ma uno specchio. E ci chiede: cosa stiamo delegando, cosa stiamo abbandonando, e chi vogliamo essere come cittadini nel tempo dell’algoritmo?
Conclusione: un caso emblematico, una lezione collettiva
Questa vicenda è un avvertimento. Dove scompare il pensiero, si afferma il controllo. Dove viene esclusa la visione culturale, prevale l’automazione. E dove la democrazia non sa più interrogarsi, gli strumenti diventano gabbie.
Non si tratta solo di cambiare il cinema. Si tratta di recuperare una cultura della complessità, della progettualità e della responsabilità, senza la quale nessuna intelligenza – né umana né artificiale – può davvero produrre futuro.
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