Cultura e Giustizia
Diritto senza senso, società senza equità
“Non credevo che i tuoi editti avessero tanta forza da permettere a un mortale
di violare le leggi non scritte e incrollabili degli dei.”
Antigone, Sofocle
Antigone resta la voce insopprimibile della giustizia che precede la legge. La sua ribellione è culturale prima ancora che etica: rifiuta una norma che non riconosce la dignità della vita. In ogni sistema giuridico svuotato di senso, in ogni sentenza che tradisce l’equità, Antigone ritorna come monito incancellabile.
Giustizia ≠ Legge. L’errore di fondo
La giustizia non coincide con la legge. Lo sappiamo da almeno venticinque secoli, da quando Antigone, sola contro il potere, pronunciò parole che ancora oggi bruciano.
La legge è un dispositivo normativo: stabilisce ciò che si può o non si può fare.
La giustizia è un’idea. Un principio. Una direzione etica.
È ciò che dà senso alla legge, ciò che dovrebbe orientarne il contenuto e limitarne l’arbitrio.
Quando la legge perde il legame con la giustizia, non è più garanzia ma minaccia. Diventa autorità cieca, strumento punitivo, meccanismo impersonale che si applica senza chiedersi se è giusto.
Oggi viviamo in una società che ha rovesciato il rapporto tra legge e giustizia.
Non ci si chiede più se una norma sia giusta. Ci si chiede solo se sia “applicabile”.
La legge non è più il mezzo per incarnare una visione civile del mondo, ma la scorciatoia per chiuderlo in una gabbia procedurale.
Eppure, legiferare dovrebbe significare una cosa sola: dare forma concreta a un ideale etico condiviso.
Ma dove manca questa radice culturale, il diritto si riduce a esercizio tecnico, e la giustizia diventa un simulacro.
Il diritto non basta a se stesso. Ha bisogno di una visione del mondo.
Senza la cultura — nel senso più alto e antropologico del termine — la legge può essere qualsiasi cosa: lo strumento per schiacciare un oppositore, per neutralizzare una protesta, per giustificare un abuso.
Non è un rischio teorico: è già successo.
È accaduto con il caso Cucchi, dove lo Stato ha mentito, coperto, manipolato. Non per errore, ma per sistema.
È accaduto con le sentenze che negano la violenza di gruppo per “assenza di consenso esplicito a gridare”, come se la grammatica del trauma potesse essere ridotta a un codice civile.
È accaduto, ancora, ogni volta che si usa la legge per legittimare una diseguaglianza.
E accade ogni giorno nei tribunali mediatici, dove la giustizia viene celebrata come spettacolo, e il diritto diventa fiction.
L’analfabetismo giuridico come strumento di dominio
Una popolazione che non conosce il diritto è facile da controllare.
Basta chiamare “decreto” ciò che limita, “riforma” ciò che smantella, “misura urgente” ciò che comprime le libertà.
Chi non ha una cultura giuridica subisce ogni decisione come ineluttabile, perché manca la chiave per decifrare.
La cultura del diritto — quella che permette di distinguere tra legge e legittimità, tra legalità e giustizia — è una delle forme più alte di emancipazione.
Ma è anche una delle più trascurate.
Nelle scuole non si studia davvero il significato della Costituzione. Nelle università si formano tecnici, non cittadini. Nei media si usano le parole “garantismo”, “presunzione di innocenza”, “conflitto di interessi” senza capirle.
Così si genera una cultura giuridica tossica: fatta di slogan, indignazione selettiva, desiderio di punizione.
Chi non conosce il diritto non difende la libertà: la invoca solo quando serve a sé.
Chi non distingue tra norma e potere, tra autorità e arbitrio, diventa complice inconsapevole della giustizia come controllo.
Legge come campo culturale. Non tecnica, ma pensiero
Ogni codice è un atto simbolico.
Ogni sentenza è una narrazione che plasma l’immaginario collettivo.
Il diritto non è neutro. È cultura scritta in linguaggio normativo.
Ed è cultura ogni volta che stabilisce chi ha parola, chi ha corpo, chi ha credito.
La cultura giuridica è quella che insegna che la pena non è vendetta, ma riparazione.
Che il reato è un fatto, ma la responsabilità è una storia.
Che una norma, per essere giusta, deve reggere davanti a un’idea di giustizia più alta, più lenta, più umana.
Se la cultura scompare, il diritto si riduce a logica procedurale.
E allora basta un algoritmo per sostituire il giudice, una mediazione televisiva per sostituire un processo, una polizia morale per sostituire la complessità.
Criticità strutturali in assenza di cultura giuridica
- Semplificazione della colpa: chi sbaglia paga, punto. Nessuna analisi, nessun contesto.
- Feticismo della norma: il diritto come fine, non come mezzo. L’ossessione per la legalità come forma di repressione.
- Giustizia-spettacolo: tribunali mediatici, sentenze televisive, indignazione a orologeria.
- Analfabetismo giuridico: cittadini incapaci di leggere la Costituzione o riconoscere i propri diritti.
- Perdita della funzione simbolica: la giustizia non parla più al senso, ma solo al codice.
- Uso politico della legge: norme su misura per emergenze inventate, strumenti di controllo sociale.
- Esclusione sociale camuffata da ordine: chi non ha accesso alla giustizia viene semplicemente ignorato.
Video blog di Aldo Grasso per Corriere.it
Giustizia non è punizione. È riconoscimento
La giustizia non è l’applicazione automatica di un codice. È la capacità di distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è solo legale.
È il luogo in cui l’umano può ancora emergere, anche nell’errore, anche nella colpa.
Perché ogni colpa ha un contesto. Ogni violenza ha una genealogia. Ogni gesto ha una rete invisibile di cause.
La legge, senza cultura, non redime: reprime e lo fa sempre con gli stessi: i fragili, i poveri, gli stranieri, gli indesiderabili.
Una società giusta non è quella che punisce meglio ma quella che comprende prima. Che ascolta di più. Che pensa più a fondo.
Per questo serve cultura: per restituire al diritto la sua funzione maieutica, non solo punitiva.
Perché la giustizia non è l’ordine.
È la voce di chi chiede di essere riconosciuto.
Stefano Pierpaoli
10 giugno 2025
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