Cultura e Intrattenimento

Lo spettacolo come ordine del discorso

“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra persone, mediato dalle immagini.”
– Guy Debord, La società dello spettacolo

Debord non ci fornisce solo una teoria, ma una diagnosi culturale che ancora oggi inchioda l’epoca. L’intrattenimento totale è il volto presentabile del controllo. La sua spettacolarità non è superficie innocua: è una struttura relazionale, una forma di potere. La cultura, se vuole sopravvivere, deve rompere questa messa in scena.

L’intrattenimento non è neutro

Oggi si parla, si insegna e si governa per intrattenere. L’informazione è spettacolo. La politica è spettacolo. L’arte è spettacolo. La cultura, se vuole spazio, deve travestirsi da intrattenimento. Deve diventare leggera, accessibile, rapida, emotiva.
Altrimenti viene espulsa, pur restando il vessillo ipocrita di chi pretende dignità espressiva per ottenere un fondo ministeriale.

Non è un caso che questo capitolo si trovi al centro di questa ricerca. La cosiddetta “produzione culturale” è stata probabilmente la centralina da cui sono partiti gli impulsi più violenti per accelerare la mutazione antropologica delle nostre comunità. Con la scusa della “cultura” sono state forgiate generazioni nel segno dello svago come forma dominante dell’espressione pubblica.

Lo spettacolo non chiede confronto, chiede adesione.
Non vuole tempo, vuole riflessi. Non propone significati, impone reazioni.
È il recinto migliore per addestrare il popolo.

Il sapere che consola ha sostituito il sapere che interroga

Così la cultura si è disinnescata fino a scomparire nella sua funzione originaria. Quella di produrre rotture, aprire conflitti, generare visioni. Benvenuti nel regno del consenso e dell’eterno sollievo. Siamo clienti, fugaci spettatori, di opere che non dicono nulla, festival dove si celebra l’ovvio, teatri che somministrano comfort turistico, serie che imitano la trasgressione ma obbediscono al sistema simbolico.

Questo è il più grande inganno del presente: cultura che non fa cultura. Cultura addomesticata. Non esiste per trasformare, ma per far sentire “partecipi” senza mai disturbare.
Sono state create schiere di utenti addestrati perché diventassero pubblico passivo e ben allineato. Il cinema televisivo, contenitore del nulla, è forse l’emblema di questa grande truffa. Ed è anche il comparto più sottomesso ai padroni.

L’esistenza convertita in spettacolo

C’è qualcuno che crede di potersi tirare fuori dall’orgia dello spettacolo de-ambulante? Girando per strada non si direbbe.
Viviamo come se fossimo contenuto: da produrre, montare, promuovere.
Migliaia di braccia come aste che innalzano cellulari-cinepresa. 

Mandrie di immortalatori della qualsiasi, che giocano a rendere eterna la perpetua amnesia che ci ha reso fantasmi.
Lo spettacolo ha invaso la vita. Ogni esperienza deve diventare rappresentazione in un inesauribile palinsesto.

Tutti questi non sono comportamenti devianti, ma esiti di una logica dominante.
Sono la conseguenza di una mente collettiva educata a esistere solo se osservata.

La controcultura, questa desaparecida

Ha mantenuto in vita qualche “spazietto”, ma molto laterale e sotterraneo nella sua accezione più cimiteriale. Sono territori che resistono nelle zone grigie dell’informazione, nei laboratori teatrali non mainstream, nei canali di satira vera, nell’arte che rifiuta il format. La politica li sostiene con riserva. Le amministrazioni locali li alimentano (poco) in cambio di uno straccio di consenso.

Ma nel caso facciano fino in fondo il loro lavoro li fanno morire perché diventerebbero un rischio. Seppure minimo, per i miseri personaggi che albergano nei palazzi comunali e regionali, il rischio culturale è un mostro da tenere a distanza.

Sono spazi fragili, discontinui, spesso invisibili. Il problema è che il tessuto che rappresentavano è isolato in tribù con scarse possibilità di dialogare al di fuori di una riserva. Le contraddizioni che possono inserire si fermano, anche nel loro caso, all’autocelebrazione. Non ci sono grandi idee, non esistono grandi partiti, non si sviluppano percorsi importanti. In questo deserto la cultura alternativa non trova motivo di esistere. Non riuscirebbe, in questo panorama anti-culturale, a disinnescare il discorso dominante.

Peccato, perché sarebbe l’unico anticorpo reale alla colonizzazione dell’immaginario. Essere marginali non è un destino: è una scelta.

Patologie del pensiero spettacolarizzato

e loro radici nel disarmo simbolico

L’intrattenimento era una parentesi. Ora è diventato struttura: pervasivo, obbligatorio, totalizzante. È il filtro attraverso cui ogni cosa deve passare per esistere, e nel farlo ha svuotato la cultura della sua profondità e complessità, riconvertendola in prodotto innocuo, facilmente consumabile.

Abbiamo imparato che anche il sapere deve piacere, che il pensiero deve intrattenere, che l’arte deve “funzionare”. Ma la cultura — quella vera — non serve a farci sentire meglio. Serve a turbare. È frizione. È fatica.

Non si può attribuire al pubblico la responsabilità di questo stato di cose. Le radici vanno cercate altrove, in un sistema che ha sostituito il senso con il consenso, e il valore con la visibilità.

Tra le distorsioni più diffuse c’è la perdita del linguaggio critico.
La soglia dell’attenzione si è abbassata e con essa il tempo dedicato alla comprensione. Il ritmo impone reazioni rapide, giudizi lampo, identificazioni immediate. E il pensiero — che richiede lentezza, contesto, silenzio — diventa ingombrante.

Altro elemento strutturale è la mercificazione simbolica: l’arte, lo spettacolo, il sapere non sono più forme del vivere, ma merci narrative. Ogni forma di espressione deve essere progettata in funzione del click, della viralità, della monetizzazione. E in questa logica, non conta più il contenuto, ma il formato. Non conta più la verità, ma l’engagement.

Si vive come si performa. Si piange con l’inquadratura giusta. Si resiste, ma con le luci accese.
Il pubblico che diventa attore (o regista) può funzionare nel Neorealismo. Per il resto fa solo danni e nel frattempo, la realtà si svuota.

I (non)luoghi da difendere

Una società che converte tutto in spettacolo è un agglomerato che ha paura del silenzio.
Ha paura del dubbio. Ha paura della solitudine.
Non si accorge che senza un’esperienza culturale degna di tale definizione, le paure aumentano, così come gli smarrimenti e la solitudine.

Perchè senza quella solitudine, senza quella fatica, senza quello scarto, non c’è crescita sociale e la comunità muore senza rendersene conto.

E allora forse vale la pena difendere ogni spazio che ancora resiste alla leggerezza obbligata.
Ogni scena che non cerca il consenso. Ogni libro che non cerca la viralità. Ogni voce che si prende il tempo di scomporre.
Perché in quei luoghi vive ancora un’idea diversa di essere umano: non spettatore, ma testimone. Non consumatore, ma interprete. Non cliente, ma cittadino dell’immaginario.

Stefano Pierpaoli
10 giugno 2025

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