Cultura e Istruzione
L’educazione come campo di battaglia simbolico
“Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme, con la mediazione del mondo.”
– Paulo Freire, Pedagogia degli oppressi
Freire ci restituisce un’idea profonda di educazione come processo relazionale e liberatorio. Non trasmissione di dati, ma costruzione condivisa di senso. In questa visione, l’istruzione diventa atto politico. Quando viene privata della sua dimensione culturale, però, si trasforma in addestramento. Dove manca il pensiero, resta solo il programma. Dove scompare la relazione, subentra il controllo.
Quando istruire non significa più educare
Il lessico dell’educazione contemporanea è rivelatore: “soft skills”, “orientamento al lavoro”, “competenze trasversali”, “PCTO”, “invalsi”. In questa grammatica aziendalista non si forma l’umano, si addestra il funzionario. Ogni passo educativo è piegato a un’unica domanda: serve al mercato? Così, l’istruzione si è convertita in una filiera produttiva: misura, classifica, valuta.
Ha espulso l’inutile, cioè tutto ciò che coltiva spirito critico. Ha marginalizzato la filosofia, la storia, la letteratura, perché troppo lente, troppo complesse, troppo umane.
Una scuola senza densità culturale diventa silenziosamente servile. Non educa cittadini, ma impiegabili. Non genera conflitto, ma adattamento. Il soggetto non viene formato, ma reso compatibile con il sistema. È questo lo slittamento fondamentale: l’educazione è stata sostituita dall’addestramento. L’aula è diventata ambiente performativo, la valutazione uno strumento di selezione sociale, l’insegnante un operatore della conformità.
Il risultato: alfabetizzati ma analfabeti
Il paradosso è evidente. Abbiamo generazioni che sanno leggere ma non comprendere, scrivere ma non argomentare, parlare ma non pensare. La scuola ha fornito strumenti ma ha smarrito lo scopo. Ha prodotto utenti competenti e cittadini fragili. Il trionfo dell’analfabetismo funzionale è sotto gli occhi di tutti: si risponde a domande che non si comprendono, si ripetono frasi senza padroneggiare il pensiero.
Non è solo povertà linguistica: è una vera e propria desertificazione semantica.
E qui la crisi è eminentemente simbolica: non si può parlare di cultura dove non esistono più le parole per nominarla.
Siamo alla vigilia – anzi, ci siamo già dentro – di un cambiamento radicale che sconvolgerà in profondità i processi di assimilazione e applicazione dell’apprendimento.
Intelligenze artificiali, piattaforme adattive, ambienti immersivi, gamification didattica: ogni innovazione arriva carica di retorica salvifica, ma nessuna di queste tecnologie porta in sé un’etica. Il loro impatto non sarà quello che promettono, ma quello che decideremo culturalmente di farne.
Ogni vuoto che non colmeremo con visione, consapevolezza e pensiero critico, rischia di diventare voragine.
Per ora sappiamo – o sentiamo – che ci troviamo sull’orlo di un abisso semantico, epistemologico, cognitivo. Non ne conosciamo ancora i confini, ma ne avvertiamo la pressione.
In questa transizione dobbiamo smettere di giocare al “piccolo scienziato” applicato alla didattica, e cominciare a costruire grandi categorie interpretative. Avremo bisogno di strumenti intellettivi molto più raffinati di quelli che il sistema scolastico attuale è in grado di fornire.
Chi insegna, oggi, non è un trasmettitore di dati, ma un guardiano simbolico. Ha il compito di proteggere la facoltà umana di discernere, scegliere, comprendere.
In tempi di automazione cognitiva, la cultura sarà l’ultimo baluardo di libertà.
La scuola che educa
Una classe è anche laboratorio politico, poetico, umano.
Limitarne la funzione in uno steccato di aspettative imposte e di prospettive nebulose è un condizionamento evolutivo inaccettabile.
È lì che vengono formati le donne e gli uomini di domani, ma in un clima corrosivo che sceglie un progetto imposto dal mercato, nessuno strumento di armonia, equilibrio e rispetto verrà garantito.
Non serve mitizzare il passato, ma riconoscere che un’istruzione impregnata di pensiero è possibile e in alcuni casi, ancora propulsiva. Dove un insegnante disobbedisce al programma per affrontare un’urgenza reale, lì nasce cultura. Dove si discute di Antigone non per dovere, ma per necessità, lì esiste ancora educazione. Dove si legge senza pensare al voto, lì la scuola torna a essere spazio di esplorazione.
In quei luoghi, la cultura non è materia, è presenza. In quelle aule la conoscenza non è prestazione, ma resistenza. Lì, la cultura non è decorazione, ma forma dell’umano.
Principali criticità del sistema educativo
(determinate dalla perdita della funzione culturale dell’istruzione)
Una scuola svuotata non è neutrale.
È funzionale all’ordine dominante.
Produce l’ingranaggio perfetto: competente, valutabile, individualista, rassegnato.
Non conosce il conflitto, non riconosce l’ingiustizia, non sa costruire alternativa.
- Siamo tornati alla “scuola di classe”. Troppi giovani vengono esclusi sistematicamente dai percorsi più qualificanti.
- Prestazionalismo sistemico: lo studente è trasformato in candidato permanente, costretto a performare, misurarsi, posizionarsi.
- Povertà simbolica: mancano le categorie per interpretare la realtà. I giovani parlano, ma non comprendono; agiscono, ma non riflettono.
- Frammentazione del sapere: l’introduzione di “educazioni” modulari (digitale, finanziaria, civica) decompone la formazione in protocolli senza visione.
- Tecnocrazia valutativa: la cultura è ridotta a griglia. Si certifica l’apprendimento, ma si svuota il pensiero.
- Marginalizzazione dell’insegnante: l’insegnante è impoverito nel ruolo, nel riconoscimento sociale, nella libertà didattica.
- Scolarizzazione dell’alienazione: l’individuo viene addestrato ad adattarsi senza interrogare. Il conflitto diventa un errore. La domanda un fastidio.
- Ingiustizia educativa: il divario tra chi può accedere a una cultura viva e chi resta schiacciato da un’istruzione impoverita si allarga, alimentando nuove disuguaglianze sociali.
Ricostruire una scuola pensante
Riportare pensiero nella scuola significa restituirle il suo ruolo originario: non tecnica di trasmissione, ma esercizio di consapevolezza. Significa tornare a un’idea etica e politica dell’educazione: formare coscienze, non ottimizzare profili. Insegnare è generare visione, non fornire risposte confezionate. Studiare è abitare un disordine fertile, non addomesticare conoscenze.
Questa visione non è utopia. Esistono luoghi dove viene ancora praticata.
Lo fu la Scuola di Barbiana, dove Don Lorenzo Milani insegnava ai figli dei contadini a scrivere per difendersi. Lì si insegnava il mondo, non i programmi. La grammatica era uno strumento per la giustizia sociale. L’aula, un laboratorio di coscienza.
Oggi esperienze come la rete “Scuola senza zaino”, diffusa in molte regioni italiane, provano a restituire senso e responsabilità al gesto educativo: ambienti cooperativi, centralità del corpo, didattica relazionale. In queste aule, il sapere non è performance ma relazione.
Anche le scuole democratiche, come la Freie Schule di Lipsia, spingono in un’altra direzione: l’istruzione come scelta, come tempo condiviso, come esercizio di autodeterminazione. Il limite è che restano esperimenti minoritari, spesso elitari, faticosamente replicabili.
Ma c’è anche chi agisce nelle zone di margine, nei quartieri dimenticati, con laboratori interculturali, narrazioni collettive, alfabetizzazione affettiva. Piccole scuole “in comune” che, senza clamore, ricostruiscono un’idea di istruzione come responsabilità comunitaria.
In tutti questi casi, la cultura non è un orpello, ma una necessità. L’insegnante non è un distributore di contenuti, ma un guardiano simbolico. E l’apprendimento non è un investimento sul futuro, ma un atto di cura verso il presente.
Riconoscere, sostenere, moltiplicare questi spazi è oggi una priorità politica. Perché ogni classe che resiste alla semplificazione, ogni programma che lascia spazio al dubbio, ogni insegnante che si rifiuta di ridursi a somministratore di unità didattiche è già, in sé, un gesto contro-egemonico.

Per una pedagogia dell’umano
Educare è un atto politico perché tocca la materia più sensibile del potere: l’immaginario.
Chi decide cosa insegnare e come insegnarlo, decide quale tipo di essere umano deve abitare il mondo.
Un’istruzione priva di cultura non è neutra: è perfettamente funzionale a un disegno di dominio. Forma individui adattabili, docili, incapaci di interrogare il sistema che li plasma. Addestra alla funzione, non alla libertà.
Ma educare, nel suo senso più profondo, è l’opposto del controllo: è un atto di fiducia nella possibilità che l’altro diventi più di ciò che è. È apertura al futuro come spazio da inventare, non da subire.
Per questo ogni lezione vera è un atto rivoluzionario in miniatura. Ogni volta che si apre una domanda invece di chiuderla, che si trasmette un dubbio invece di una certezza, che si introduce un autore non previsto dal programma, si compie un gesto sovversivo.
Una scuola che rinuncia alla cultura rinuncia anche alla sua funzione primaria di prevenzione della violenza.
Perché l’odio non nasce all’improvviso: germina nel vuoto simbolico, nel lessico impoverito, nella banalizzazione dell’altro.
E se oggi la violenza di genere è una piaga strutturale, è anche perché abbiamo delegato la formazione affettiva, etica, relazionale, a codici disfunzionali. In una scuola che insegna la differenza si può contrastare la sopraffazione ed è soprattutto a scuola che può essere coltivata la parola per rompere il silenzio della paura.
È lì che si costruisce l’immaginario che può disinnescare il dominio.
La scuola non è, e non sarà mai, un ingranaggio neutro della società. È un campo di battaglia simbolico. Una soglia tra l’obbedienza e il pensiero a presidio dell’umano contro la deriva automatica dell’adattamento.
E allora la vera riforma è culturale: non insegnare a obbedire meglio, ma insegnare a disobbedire con intelligenza.
Perché l’istruzione che non libera è solo una forma più elegante della servitù.
Stefano Pierpaoli
10 giugno 2025
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