Cultura e Lavoro
Etica del fare, alienazione moderna
“Il lavoro manuale è o la più alta forma di devozione, o il più degradato degli schiavitù,
secondo che sia o no collegato a una visione del mondo che lo illumini.”
Simone Weil, La prima radice
Weil non fa retorica. Indica un bivio preciso. Il lavoro non è solo ciò che si fa: è ciò che si diventa mentre lo si fa. Dove manca la cultura, il lavoro degrada a meccanismo. Dove la cultura è viva, il lavoro diventa gesto simbolico, costruzione condivisa, atto morale.
Lavorare senza cultura: la normalizzazione dello sfruttamento
Un lavoratore senza cultura è un organismo da spremere. Si piega alle logiche dell’urgenza, della flessibilità, dell’adattabilità. Accetta la precarietà come condizione naturale, il sacrificio come metrica del valore, la competizione come unica strategia di sopravvivenza.
Una società che ha smarrito la cultura del lavoro è una società che si lascia sfruttare con il sorriso.
Il lavoro diventa adattamento meccanico, prestazione vuota. Si lavora come si scorre un feed: senza memoria, senza scopo, senza responsabilità.
Non c’è più mestiere, ma solo competenza. Non c’è più vocazione, ma solo curriculum.
Il linguaggio tradisce la verità: oggi si “offrono posizioni”, non si cerca un compito; si “valuta il potenziale”, non si riconosce il sapere; si “investe nel capitale umano”, come se l’umano fosse risorsa da spremere.
La cultura del lavoro è stata sostituita dalla cultura della performance.
Conseguenza: la fatica diventa colpa, la fragilità una vergogna, la disoccupazione un marchio.
La cultura neoliberista ha smantellato ogni memoria condivisa di dignità, solidarietà, lotta.
Il lavoratore è lasciato solo e perciò reso docile.
Il lavoro come sorveglianza: quando l’identità è contratto
La cultura era la barriera invisibile che proteggeva la soggettività. Oggi quella barriera è saltata. Il lavoro entra nella vita, occupa lo spazio del tempo libero, ridefinisce l’identità. Nessuno distingue più tra “chi sono” e “cosa faccio”.
L’orologio biologico è diventato turnazione cognitiva. Il badge si è infilato nella psiche.
La performance non si misura solo in ore, ma in disponibilità emotiva, in capacità di assorbire umiliazioni con il sorriso.
Il lavoro coatto non viene imposto. Viene interiorizzato. È servitù volontaria, resa accettabile da narrazioni tossiche di crescita e autorealizzazione.
E quando si fallisce, la colpa è tua: non abbastanza agile, non abbastanza flessibile, non abbastanza “formato”.
La cultura del limite
Il lavoro non è infinita disponibilità. Non è sacrificio perpetuo. Non è martirio sociale.
È un patto tra ciò che si dà e ciò che si riceve, tra ciò che si costruisce e ciò che si lascia agli altri.
Dove manca cultura, questo patto si rompe. Resta solo il dovere unilaterale del produrre.
Il lavoro si infiltra nel tempo libero, si insinua nelle relazioni, si mimetizza ovunque.
Non si lavora più per vivere: si vive per lavorare.
O peggio: per fingere di farlo.
Lo si vede ogni giorno:
- Lavoratori pagati con la “visibilità”
- Dipendenti che si auto-monitorano per compiacere l’algoritmo
- Giovani che si umiliano in stage non retribuiti “per cominciare”
- Operai invisibili che si ammalano nel silenzio
Il pensiero critico è scomparso. Il conflitto è stato sostituito dalla colpa.
L’auto-colpevolizzazione ha preso il posto della lotta. Il fallimento non è più sociale: è psicologico.
Sei tu che non vali, non il sistema che ti schiaccia.
Video blog di Aldo Grasso per Corriere.it
Il commento di Aldo Grasso risale a 7 anni fa ma è più che attuale e ci offre uno spunto significativo su cui riflettere
Le patologie del lavoro senza cultura
Il mondo del lavoro è attraversato da ferite sistemiche. Non sono semplici disfunzioni: sono espressioni materiali di un deficit culturale profondo, che ha separato il fare dal pensare, la tecnica dal senso, l’impiego dalla dignità.
Ecco le criticità più gravi, dove l’assenza di una cultura del lavoro produce ingiustizia, impoverimento e alienazione:
- Salari da fame e sfruttamento normalizzato
Il lavoro viene pagato sempre meno, soprattutto nei settori essenziali. Non perché “non ci siano risorse”, ma perché è scomparsa l’idea di dignità retributiva.
Quando la cultura è debole, il salario non misura il valore, ma il potere contrattuale — e chi ha meno voce, vale meno. - Precarietà strutturale come forma di controllo
I contratti a termine, il lavoro intermittente, le finte partite IVA non sono anomalie, ma strategie sistemiche.
Un lavoratore instabile è un lavoratore più docile.
Senza cultura, la precarietà non viene più percepita come ingiustizia, ma come “condizione moderna”. - Disuguaglianza di genere
Dove manca una cultura del lavoro inclusiva, le donne restano penalizzate nei ruoli, nei compensi, nei percorsi di carriera. La maternità è ancora un ostacolo. Il linguaggio è sessista.
E la cultura del rispetto viene sostituita dal paternalismo manageriale. - Lavoro povero, anche a tempo pieno
Milioni di persone lavorano a orario pieno e restano povere. Un paradosso che rivela la falsità dell’equazione “lavorare = emanciparsi”, quando manca un fondamento culturale che ridia al lavoro il suo statuto etico e redistributivo. - Ricatto occupazionale
Chi ha un lavoro, anche malpagato e nocivo, viene invitato a “non lamentarsi”. Perché l’alternativa è il nulla.
Questo meccanismo di colpa e ricatto funziona solo in contesti culturalmente desertificati, dove non si è più in grado di immaginare alternative collettive. - Alienazione simbolica e perdita di senso
Sempre più lavori sono scollegati da una finalità leggibile: attività frammentate, automatizzate, impersonali. Il lavoratore non sa più per chi lavora, perché lavora, cosa produce.
L’espropriazione del senso è una delle forme più gravi di disumanizzazione. - Scomparsa della rappresentanza reale
Sindacati indeboliti, corpi intermedi marginalizzati, narrazione tossica del “ce la fai da solo”. Quando la cultura politica del lavoro si dissolve, il singolo resta solo davanti al potere dell’impresa.
E la solitudine genera disperazione.
Tutte queste criticità hanno una radice comune: l’assenza di una cultura del lavoro.
Senza cultura, il lavoro è solo tempo ceduto in cambio di sopravvivenza.
Con cultura, il lavoro torna a essere creazione di valore condiviso, strumento di giustizia, costruzione simbolica della collettività.
Il lavoro con cultura: appartenenza e responsabilità
Ma il lavoro può essere altro.
Quando è sostenuto da cultura, non si limita a produrre: genera legame, identità, comunità.
Dove la cultura è presente, il lavoro diventa:
- trasmissione di saperi
- cura del dettaglio
- orgoglio del fare bene
- riconoscimento reciproco
Un lavoro vissuto culturalmente non annienta, ma emancipa.
Lo si vede negli artigiani che resistono all’omologazione. Nei contadini che rifiutano le logiche tossiche dell’agrobusiness.
Nelle cooperative che riscrivono le regole, nei laboratori mutualistici, nei progetti di economia solidale.
Là dove torna la cultura, torna anche la possibilità di dire “no” — al ricatto, al mito del merito, al feticcio della carriera.
Ma soprattutto, torna la possibilità di dire “noi”.
Non tutti i lavori sono neutri
Un lavoro senza cultura può trivellare un mare, costruire un drone, assemblare uno sfratto e chiamarlo “risultato”.
La cultura chiede: a cosa sto contribuendo? Chi sto servendo? Quale mondo sto costruendo?
Senza cultura, anche il lavoro più pagato può essere complice.
Anche il lavoro più tecnologico può essere disumano.
Anche il lavoro più riconosciuto può essere, in realtà, servitù intellettuale mascherata da successo.
Il lavoro come gesto politico
La domanda giusta non è più “che lavoro fai?” ma “che cultura esprime il tuo lavoro?”
Il futuro si gioca qui: nella capacità di riconoscere che ogni gesto lavorativo è anche gesto politico.
Che ogni mestiere, se scollegato dalla cultura, è solo una funzione nella catena dell’asservimento.
Il lavoro che ignora la cultura è un esercizio vuoto: muove l’economia, ma spegne l’umano.
Il lavoro che si nutre di cultura, invece, non solo produce: insegna, lega, fonda.
Stefano Pierpaoli
10 giugno 2025
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