Cultura e politica

L’immaginario perduto della democrazia

“Il potere corrisponde alla capacità umana non soltanto di agire, ma di agire in concerto. Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene a un gruppo e continua ad esistere soltanto finché il gruppo rimane unito.”
Hannah Arendt, Che cos’è la politica

Quando la cultura politica scompare, scompare anche lo spazio condiviso dove il potere può manifestarsi come azione comune. Arendt coglie con precisione ciò che il nostro tempo ha smarrito: la politica come capacità di agire insieme, di costruire realtà. La sua riflessione inchioda il presente, dove il potere viene ridotto a comando individuale, e la democrazia a spettacolo.

Quando la cultura politica manca: sintomi, patologie, conseguenze

Chi non conosce la grammatica della democrazia confonde la proposta con la propaganda. Crede che governare significhi “decidere in fretta”, non rappresentare. Scambia la libertà per capriccio individuale e la Costituzione per un ostacolo tecnico da riformare a colpi di slogan.

Così nasce il populismo dell’“uomo forte”, dell’efficienza senza confronto, dell’autoritarismo vestito da buonsenso. La satira diventa verità, l’indignazione diventa impegno, il confronto scompare. La parola “politica” viene sostituita da “gestione”. Il potere si estetizza: i talk show sostituiscono le assemblee, le dirette social i programmi, la presenza scenica la competenza.

Il leader oggi è un brand: posizionato, addestrato, progettato per stare in scena.
Non si presenta con una visione, ma con un gesto. Una frase d’effetto. Un nemico.
È la spettacolarizzazione del vuoto, ed è perfettamente funzionale: funziona finché nessuno pensa.

Ecco allora che il sondaggio diventa oracolo.
Non misura l’opinione: la produce.
Non raccoglie la realtà: la orienta.
Un boss lo commissiona, un sicario lo esegue, un idiota risponde, un servo lo diffonde. Nessuno riflette. Nessuno chiede. Nessuno risponde davvero.

Nel frattempo, la cittadinanza si spegne.
Chi non ha cultura politica non esercita controllo, non elabora alternative, non costruisce opposizione. Vota in base alla simpatia, oppure non vota affatto. Subisce. Oppure si rifugia nel fatalismo: “tanto sono tutti uguali”.
Ma l’ignoranza politica non genera neutralità: genera conformismo.

Quando la cultura politica vive: strumenti, visione, resistenza

Una cultura politica viva educa al dubbio, alla complessità, al conflitto come forma nobile. Restituisce strumenti di lettura del potere. Rende ogni cittadino capace di capire un articolo di legge, riconoscere una manipolazione, smontare una narrazione imposta.
È quella che distingue tra consenso e manipolazione. Tra partecipazione e spettacolo. Tra diritto e privilegio.

Dove la cultura è presente, la politica torna a essere progetto.
Non una corsa elettorale, ma un orizzonte collettivo.
Non un algoritmo di consensi, ma una visione incarnata nel tempo.
In queste condizioni, movimenti, assemblee, laboratori civici diventano atti culturali, non semplici aggregazioni.

Le scuole, le biblioteche, i media indipendenti, i circoli diventano luoghi di mediazione simbolica.
Non producono followers, ma pensiero.
Non gestiscono identità, ma le aprono al dialogo.
In questi luoghi si ricostruisce il tessuto della democrazia: la parola, il senso, la coscienza.

Ed è qui che tornano anche gli aristos: non élite finanziarie, ma fuoriclasse del pensiero.
Amministratori che antepongono l’etica al consenso. Intellettuali che scendono dalle cattedre e si espongono nel mondo. Candidati che rinunciano al personalismo per costruire squadra, metodo, complessità.

Quali possibilità si aprono?

Una cultura politica rinnovata può riattivare la pedagogia del dubbio. Può rendere la democrazia un processo educativo continuo, non una formalità svuotata.
Può alimentare un nuovo immaginario collettivo: non fondato sulla paura e sulla vendetta, ma sul futuro condiviso, sulla responsabilità, sulla lentezza che serve a pensare.

È così che può nascere una coscienza di classe simbolica: dove il conflitto non è tra categorie sociali precostituite, ma tra chi costruisce senso e chi lo distrugge.

Contro cosa deve resistere questa cultura

Le minacce sono numerose e penetranti:

  • L’algoritmo che sostituisce il ragionamento con la reazione.
  • Il linguaggio semplificato che impedisce la complessità.
  • L’infotainment che traveste l’opinione da notizia.
  • La retorica antipolitica che cancella ogni desiderio di partecipare.

Tutte queste forze convergono verso un unico obiettivo: neutralizzare la politica come esercizio del pensiero.
E questo accade sempre, sistematicamente, quando la cultura viene ridotta a contenuto.

La cultura politica non è un lusso da salotto.
È un presidio di libertà collettiva, il solo strumento che ci permette di distinguere la partecipazione dal condizionamento, la democrazia dalla sua caricatura.
Senza cultura, la cittadinanza è una finzione amministrativa.
Senza cultura, la democrazia è solo una confezione vuota, facilmente occupabile da chi sa vendere meglio il proprio vuoto.
Tornare alla cultura politica significa tornare alla radice della convivenza.

Non come nostalgici, ma come combattenti del presente. Cittadini non delegati. Non spettatori. Non utenti. Pensanti. Consapevoli. Resilienti. E, se necessario, disobbedienti.

La cultura politica non è una disciplina da insegnare, ma una forma di coscienza collettiva. Un’intelligenza condivisa che ci permette di distinguere la libertà dall’istinto, il consenso dalla manipolazione, il governo dalla gestione.
Dove manca cultura politica, non ci sono cittadini: ci sono reazioni. Non ci sono idee: ci sono etichette. Non c’è futuro: c’è solo presente da governare e paura da distribuire.

Tornare alla cultura politica significa ricostruire l’ethos della polis, non come nostalgia di Atene o dei lumi, ma come forma di resistenza contro l’analfabetismo organizzato. Significa scommettere sulla lentezza del pensiero contro la velocità dell’algoritmo. Significa coltivare il dubbio, il dissenso, la fatica di pensare insieme.

Non ci sarà alcuna democrazia reale senza un popolo capace di pensarsi nel tempo, nello spazio, nella responsabilità. E questo popolo, oggi, non lo si crea con campagne elettorali. Lo si educa. Lo si ispira. Lo si accompagna.
La democrazia non ha bisogno di follower. Ha bisogno di coscienze culturali in lotta.

Se la cultura è davvero l’unico antidoto alla barbarie, allora quella politica è il primo presidio da ricostruire. Non per tornare indietro, ma per aprire un varco nel presente. Un varco che ci permetta non solo di resistere, ma di immaginare ancora.

Stefano Pierpaoli
30 maggio 2025

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