Cultura e Salute

La cura come atto simbolico, non solo tecnico

“La salute è la capacità di adattarsi ai cambiamenti dell’ambiente,
di crescere, di invecchiare, di guarire quando feriti, di soffrire e di aspettare pacificamente la morte.”
Ivan Illich, Nemesi medica

Ivan Illich smaschera con lucidità il paradosso della medicina moderna: più protocolli, meno prossimità; più tecnologia, meno umanità. La salute, nella sua definizione più profonda, non è assenza di malattia, ma armonia tra il vivente e ciò che lo circonda: corpo, relazioni, ambiente, parola. Dove questa armonia è tradita, si insinua il dominio del meccanico, del numerico, dell’impersonale.

Il rischio di una sanità senza anima

Il sistema sanitario italiano, a lungo esempio virtuoso di universalismo, rischia oggi il collasso non solo economico, ma simbolico. A indebolirlo non sono solo le carenze strutturali – liste d’attesa insostenibili, personale ridotto all’osso, pronto soccorso in affanno – ma l’impoverimento del senso della cura.
Un sistema può essere informatizzato, digitalizzato, efficientissimo, e al contempo disumanizzante.

Perché la cura non è un algoritmo. È ascolto, relazione, interpretazione del bisogno. La medicina senza immaginazione etica riduce la vita a protocollo e il paziente a caso clinico.

La cultura è ciò che trasforma l’intervento in gesto.
La cultura è ciò che trasforma il sapere in alleanza.

Il paziente come utente, l’operatore come ingranaggio

Quando il cittadino è privo di strumenti culturali, non sa orientarsi nella complessità sanitaria. Subisce. Si affida passivamente al parere rassicurante o, all’opposto, cade nel sospetto paranoico. Obbedienza cieca e rifiuto ideologico sono due esiti della stessa fragilità: l’analfabetismo della salute.

Analogamente, l’operatore sanitario — spesso formato solo su aspetti tecnici — è lasciato solo in un sistema che ne consuma le energie, ne cancella la vocazione, ne mina la motivazione. Il burnout non è un problema individuale: è la spia di una crisi epistemologica della medicina.

In mancanza di cultura, la sanità produce:

  • pazienti ridotti a numeri e ticket;
  • operatori logorati, privati del “perché”;
  • cittadini smarriti, facili prede della medicalizzazione compulsiva.

L’attacco al Servizio Sanitario Nazionale: un disarmo culturale

Il sistema sanitario pubblico italiano è oggi minacciato non solo da tagli e privatizzazioni, ma da una narrazione tossica che lo descrive come inefficiente, superato, da rottamare.
Si dimentica che il SSN è stato — ed è — uno dei pochi presidi reali di eguaglianza nel nostro Paese.
Un presidio culturale, prima ancora che sanitario.

Privatizzare la sanità significa privatizzare il diritto alla vita.
Significa creare cittadini di serie A e cittadini di serie B.
Significa trasformare la sofferenza in occasione di profitto.

Le conseguenze si vedono: la sanità integrativa come norma, gli ospedali pubblici ridotti a terminali per i casi più disperati, le cliniche private che selezionano in base alla solvibilità.
E il cittadino, impoverito due volte — economicamente e simbolicamente — si ritrova abbandonato.

Il linguaggio che cura, il linguaggio che uccide

Dire “utente” invece che “persona”.
Dire “gestione della domanda” invece che “sofferenza da accogliere”.
Dire “risorsa umana” invece che “professionista della cura”.

Ogni parola è un atto. Ogni termine è una scelta. Dove il linguaggio si disumanizza, anche la cura si spegne.
La cultura è ciò che permette di nominare correttamente la realtà.
E dove il linguaggio muore, la civiltà vacilla.

Elenco delle criticità più gravi del sistema sanitario italiano (connesse al deficit simbolico e culturale):

  • Smantellamento progressivo del SSN: privatizzazioni striscianti, esternalizzazioni, erosione del principio di universalità.
  • Liste d’attesa insostenibili: accesso alle cure sempre più tardivo e diseguale.
  • Mancanza di personale: concorsi deserti, turni massacranti, fuga di professionisti.
  • Sofferenza del personale: burn-out, demotivazione, perdita del senso del ruolo.
  • Diffidenza e disinformazione: sfiducia crescente nei confronti delle istituzioni sanitarie e diffusione di pseudoscienza.
  • Sanità percepita come servizio “a consumo”: senza responsabilità civica né partecipazione informata.
  • Perdita della medicina territoriale: desertificazione di aree interne, abbandono delle fasce più fragili.
  • Commercializzazione della salute: proliferazione di “pacchetti benessere”, medicina estetica, screening inutili.

Dove torna cultura, nasce un’altra medicina

Non basta invocare una “umanizzazione della sanità” come slogan. Bisogna praticare una cultura della cura che sia concreta, accessibile, operante nei luoghi reali del bisogno.
Non serve un nuovo reparto: serve un altro sguardo.
Non servono solo fondi: serve una rifondazione simbolica del senso di “prendersi cura”.

Ecco dove la cultura può fare la differenza:

  • Restituire centralità alla medicina territoriale: ogni quartiere, ogni area interna deve poter contare su presidi di cura pubblici, integrati nel tessuto sociale. Non si tratta solo di sanità “diffusa”, ma di sanità come presenza simbolica dello Stato.
  • Istituire scuole di formazione culturale per medici e operatori: accanto a fisiologia e clinica, introdurre corsi su linguaggio, bioetica, antropologia della salute, storia della medicina. Chi cura deve capire cosa significa soffrire.
  • Portare educazione alla salute nelle scuole: una vera alfabetizzazione medica fin dall’adolescenza, per generare cittadini consapevoli, non consumatori passivi. Capire cos’è un sintomo, distinguere malattia e disagio, leggere un bugiardino, orientarsi in un consultorio.
  • Creare spazi per la narrazione del paziente: consultori, reparti, case di cura devono accogliere il racconto della malattia. Perché ogni sintomo ha una storia, e ogni storia contiene una domanda di senso.
  • Promuovere consultori e ambulatori culturali per il disagio contemporaneo: solitudine, ansia diffusa, dipendenze, problemi relazionali. La medicina pubblica deve rispondere a questi sintomi sociali, senza medicalizzarli, ma riconoscendoli come fratture simboliche.
  • Rilanciare una campagna culturale per la difesa del SSN: non solo con dati e cifre, ma con racconti, testimonianze, memorie. Il SSN è un patrimonio sociale, affettivo e politico, una delle poche architetture civili ancora capaci di unire. Va raccontato, difeso, rinnovato.

Curare è dire all’altro: la tua vita ha valore

È un gesto che richiede sguardo, ascolto, tempo.
Non si può delegare alla macchina ciò che solo un’anima può sostenere.
La cultura della salute è l’ultima frontiera della civiltà perché ci riguarda tutti — ogni giorno, in ogni corpo, in ogni respiro.

Una sanità senza pensiero è una tecnica senz’anima.

Una società che abbandona la cura è una società che si prepara alla disgregazione.

C’è bisogno di una sanità che non solo guarisca, ma riconosca.
Che non solo funzioni, ma significhi.
Che non solo intervenga, ma accompagni.

E per questo, serve una sola medicina prima di tutte le altre: una cultura della cura.

Stefano Pierpaoli
10 giugno 2025

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