Hobbes e Freud, distanti nel tempo, condividono lo stesso avvertimento: la paura non è un incidente. È l’architrave dell’umano.
Per Thomas Hobbes non era una questione di libertà. L’uomo, lasciato a se stesso, non genera altro che conflitto, prevaricazione, morte. L’unico modo per evitare questa deriva è affidarsi a un potere superiore, a un Leviatano che garantisca sicurezza e dunque sopravvivenza. In questa visione, la paura diventa pertanto una leva emancipativa, poiché costringe l’individuo a sottoscrivere un patto sociale. È infatti per sfuggire agli impulsi distruttivi dello stato di natura che si rende necessario uno Stato che obblighi all’obbedienza, assicuri l’ordine politico e produca la coesione sociale e gli orizzonti simbolici.
Sigmund Freud, tre secoli dopo, scava più in profondità. La paura si fa angoscia ed è questo un sentimento che non deriva da minacce esterne ma da rimozioni interne. La paura non nasce dal mondo, ma dall’inconscio. È il segnale di un conflitto latente tra le pulsioni vitali e i meccanismi di repressione che la civiltà impone. In “Eros e Civiltà”, questa tensione viene portata al suo esito più radicale: il progresso culturale richiede sacrifici psichici crescenti, soprattutto nella sfera del desiderio. La paura, in questo quadro, è l’effetto collaterale della rinuncia: rinuncia all’istinto, al piacere, alla libertà. È il prezzo da pagare per abitare un mondo ordinato ma interiormente sorvegliato.
Se in Hobbes la paura fonda la società dall’esterno, in Freud la società è già una paura interiorizzata.
Due genealogie distinte, un destino comune: la paura come codice invisibile che struttura la civiltà.
Esistono molte forme di paura che si manifestano in declinazioni che conosciamo come timore, ansia, terrore, panico, angoscia. Le nostre risposte, come in natura, variano dalla reazione aggressiva alla fuga fino al fingersi morti. Ma se nel mondo animale questi comportamenti sono inscritti nell’istinto, nella nostra specie la risposta alla paura è il risultato di processi culturali, costruzioni simboliche, dispositivi di interiorizzazione. La paura, nelle società contemporanee, non si limita a segnalare un pericolo: diventa forma di organizzazione del senso, grammatica del vivere.
Si insinua nelle relazioni, nei desideri, nelle abitudini. Assume volti diversi: colpa, ansia, insicurezza, bisogno di protezione.
Byung-Chul Han (n. 1959), in particolare, ha mostrato come la società della trasparenza e della prestazione abbia trasformato la paura da risposta difensiva a strumento di governo psichico. Non temiamo più il potere esterno, ma il fallimento interno. Il nemico non è l’altro, ma l’insufficienza di sé. La paura si interiorizza, diventa ansia da prestazione, panico dell’inadeguatezza. In questo scenario il potere non reprime ma ottimizza gli effetti delle nostre angosce. Così il soggetto diventa imprenditore di se stesso e sorvegliante della propria fragilità, fino al logoramento. In questo modo la paura non viene imposta dall’alto ma si autogenera, si autoalimenta.
Anche Jean Baudrillard (1929–2007) aveva previsto un esito analogo, ma da un’altra angolatura. In un mondo dove la realtà è progressivamente sostituita dalla sua rappresentazione, la paura diventa un simulacro. Non è più legata a minacce tangibili, ma a scenari iperrealistici che alimentano l’immaginario collettivo. È la paura come spettacolo, come dispositivo narrativo che sostituisce il reale con la sua parodia ansiogena. Le emergenze vengono serializzate, il rischio diventa intrattenimento, l’allarme uno stile comunicativo. La paura non protegge più ma ci distrae, anestetizza, modella il consenso.
L’inganno e il mito
Le strategie simboliche arcaiche – miti, religioni, riti – ricoprivano una funzione centrale per esorcizzare la paura.
Non la negavano, la riconoscevano. Attraverso racconti fondativi, cerimonie collettive, figure sacre o demoniche, le culture antiche costruivano cornici di senso capaci di contenere l’angoscia, di dare un volto all’invisibile, una voce al perturbante[1].
La paura non veniva rimossa, ma metabolizzata attraverso la ripetizione simbolica.
Oggi, di quel patrimonio resta l’involucro. I miti sono stati sostituiti da narrazioni di consumo, le religioni da spiritualismi su misura, i riti da routine performative.
Quello che prima aiutava a integrare l’individuo nel tessuto del mondo, ora lo espone a nuove solitudini. I simboli non fondano più comunità, ma servono a decorare identità. La funzione di elaborazione si è trasformata in dispositivo di esposizione: si teme, ma non si elabora; si espone, ma non si comprende. La paura resta, ma è orfana di mediazioni culturali. E quando non trova forme collettive di attraversamento, si trasforma in patologia, in aggressività, in dipendenza.
Basti pensare alla continua enfasi cui siamo sottoposti nello stile esasperante dei media per renderci conto come lo stimolo incessante sia diventato modello di comunicazione e condizionamento. È un incitamento che ci spinge verso la continua creazione di miti e poco ci importa della loro consistenza. A noi serve inneggiare, immortalare, esserci nel momento delle loro incoronazioni. I loro riti diventano i nostri riti e, in quel vortice di celebrazioni, anneghiamo saturi di tossiche suggestioni. È una droga spietata che non ammette pause. Domani, inevitabilmente, prepareremo le nostre telecamere e torneremo a cercarla.
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[1] Il “perturbante” (Unheimliche) rappresenta l’esperienza psichica in cui ciò che dovrebbe rimanere nascosto, segreto, intimo emerge invece nella dimensione del manifesto, generando una sensazione di straniamento inquietante. Nella concezione freudiana, il perturbante è l’emersione dell’inconscio represso che sovverte l’apparente ordine razionale, producendo un’angoscia che nasce non dal totalmente sconosciuto, ma da ciò che era stato rimosso e che ora ritorna come minaccia. È l’esperienza che dissolve le rassicuranti distinzioni tra interno ed esterno, tra soggetto e oggetto, tra conscio e inconscio, rivelando l’instabilità dei nostri dispositivi di controllo psichico.
Filosoficamente, il perturbante diventa la soglia in cui l’identità perde i suoi confini stabili, dove l’umano scopre la propria radicale contingenza e la fragilità delle costruzioni che definiscono il sé.
L’ordine senza giustizia
In assenza di fiducia, la paura garantisce la coesione. Dove manca un progetto comune, essa diventa la grammatica implicita del vivere insieme. Si tollera ogni limitazione, purché prometta protezione. Si accetta ogni sacrificio, purché riduca il margine d’incertezza. La libertà non è più un valore. È un rischio da contenere.
Così nasce un ordine senza giustizia. Un sistema che non pretende adesione e spinge le masse alla rassegnazione. Le istituzioni non guidano perché il loro ruolo è quello di somministrare ansie. I media non informano ma lavorano sulla seduzione dell’allarme e sull’ammaestramento a quel codice. Adorano soffiare sul fuoco. Ogni evento è un’emergenza. Ogni parola è un ultimatum in un meccanismo perpetuo che funziona ormai alla perfezione. E quando funziona, diventa utile affinché il cittadino diventi organico alla macchina del potere.
La sorveglianza non viene più imposta: è richiesta. La schedatura non è più subita: è autoindotta. Le rinunce non sono più combattute: sono interiorizzate. Il dominio non ha bisogno di forza. Ha la complicità.
La cultura della minaccia
La paura diventa linguaggio. Penetra la politica, la comunicazione, le relazioni personali. Ogni differenza è un rischio. Ogni dubbio è un pericolo. Ogni errore è un’onta. Tutto ciò che non si può prevedere, si deve contenere.
Il nemico non deve più essere reale e ci si accontenta che sia plausibile. Meglio se la minaccia è astratta, inafferrabile, instabile: un virus, un attacco informatico, una migrazione.
Qualcosa che non si può fermare davvero, ma da cui bisogna proteggersi per sempre.
Nel dubbio, si rinuncia all’autonomia, alla responsabilità, al confronto. Si delega. A chiunque possegga una voce più importante e più “mediatica”. Non importa se mente, al popolo interessa che dica. Il popolo non si soffermerà a voler capire.
Paura come identità
Alla lunga ci si abitua, in un incosciente scivolare sullo scorrere dei giorni, con la speranza morbosa di proteggerci con le nostre ipocondrie. Così l’allarme diventa un segnale sensato al di là del suo senso e l‘ansia che esso può produrre è il migliore alleato per giustificare la nostra inconsistenza e il nostro diventare sempre più virtuali. Lo stile di vita a cui aderiamo è quello dell’isolamento che sterilizza, neutralizza a filtra. Siamo malati in terapia intensiva ma immunizzati dall’esplorazione della vita.
La guardiamo da lontano, la simuliamo ed evitiamo di viverla.
La nostra identità si è formata sulla paura e in questo ha goduto di due soci incontrastati, maestri ineguagliabili di disfunzionalità: la famiglia e la scuola. Ma guai a dirlo, sono realtà suscettibili che mal digeriscono il loro fallimento. Meglio cedere in silenzio alla postura costante che garantisce le nevrosi a cui siamo affezionati. È l’atto unico da recitare nell’ambiente di lavoro o di svago o di social.
Anatomia del cedimento
Non è successo tutto in un giorno. Non c’è stato un colpo di stato, nessuna invasione di alieni, nessun editto letto a voce alta. È avvenuto per piccoli passi, in silenzio. Un progressivo aggiornamento delle condizioni d’uso. È così tranquillizzante sentirsi monitorati. Conduce a una continua rinuncia che allontana perfino il rumore della guerra.
Felicemente repressi, ci rannicchiamo nella neutralità volgare dei nostri linguaggi e a nostra insaputa, entreremo a far parte di un numero citato nei sondaggi. Che bello e che sollievo: facciamo parte della maggioranza che chiede più benessere.
Abbiamo ceduto pezzi di autonomia senza accorgercene. Avremmo forse dovuto agire per il bene ma abbiamo lasciato fare ai maghi della comunicazione e delegato ogni scelta ai nostri sovrani.
Ora abbiamo ottimi motivi per lamentarci. Ci sono facce e nomi contro cui inveire perché la colpa non è mai la nostra. Non siamo noi, comuni mortali, a produrre il male. Al massimo ne siamo l’espressione funzionale.
Siamo serviti per arrivare a questo punto e abbiamo svolto con disciplina il compito per cui siamo stati educati.
Noi dobbiamo servire e quando siamo impauriti e angosciati serviamo ancora meglio.
Noi dobbiamo servire. Il padrone ne ha bisogno.
Stefano Pierpaoli
12 maggio 2025
- Thomas Hobbes, Leviatano (1651): Hobbes esplora la natura umana e la necessità di uno stato centrale forte per evitare il caos e la guerra. La sua concezione della paura come motore del patto sociale è fondamentale nel pensiero politico moderno.
- Sigmund Freud, L’Io e l’Es (1923): Freud teorizza la paura (angoscia) come un aspetto centrale della psiche umana, con il conflitto tra l’istinto e la società come sua radice. La paura diventa il sintomo dell’incapacità dell’individuo di gestire l’inconscio e la repressione.
- Jean Baudrillard, La società dei consumi (1970): Baudrillard analizza il passaggio dalla società industriale a una società di consumo e come questo trasformi le emozioni e le esperienze in immagini e simulacri. La paura, nella sua visione, non è più collegata a minacce reali, ma è una costruzione sociale mediata dai mass media e dal consumo.
- Byung-Chul Han, La società della stanchezza (2010): Han esplora la condizione moderna dell’individuo, dominato dalla spinta alla prestazione e dall’auto-sfruttamento. La paura, nel suo pensiero, è legata alla crescente solitudine e ansia sociale che nasce dal modello dell’individuo “autocreato” e sempre più incapace di resistere alla pressione sociale.
Cartografia del Male Contemporaneo
Il male contemporaneo non si presenta più con i tratti riconoscibili dell’orrore manifesto. È silenzioso, diffuso, integrato. Non ha bisogno di gridare: gli basta aderire, insinuarsi nei discorsi, nei gesti, nei dispositivi sociali e culturali…
Il male contemporaneo non ha più i tratti riconoscibili dell’orrore manifesto. È silenzioso, diffuso, perfettamente integrato. Non ha bisogno di gridare: gli basta insinuarsi nei discorsi, nei gesti, nei dispositivi sociali e culturali.
Questa trilogia nasce dal tentativo di mappare alcune delle sue forme più attuali e insidiose, spesso trascurate proprio perché normalizzate.
Treni verso l’abisso esplora la spinta alla semplificazione e alla delega cieca, che trasforma le persone in passeggeri passivi su binari tracciati da altri.
Geometria della paura analizza il ruolo delle emozioni – in particolare la paura – come forza che restringe il pensiero e alimenta soluzioni autoritarie.
L’egemonia del pessimo riflette infine sul dominio della mediocrità come cifra del nostro tempo: una mediocrità che non solo spegne l’eccellenza, ma sospetta di ogni tentativo di elevarsi.
Tre sguardi, un unico intento: riconoscere le maschere del male quando si mimetizza nell’ordinario.
Perché troppo spesso il male non si impone, si lascia fare.
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La semplificazione è madre dell’ignoranza indotta, della mediocrità, dell’opinione da bar. Rotola passivamente verso un modello di comunicazione tra gli...

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