Geopolitica

Conflitti paralleli

Cosa non torna nelle narrative da talk show

I media raccontano la guerra in Palestina come scontro tra due narrative inconciliabili: difesa legittima contro terrorismo da una parte, genocidio dall’altra. Entrambe le letture, pur contenendo frammenti di verità, mancano il punto essenziale. Non spiegano perché Israele accetti costi così alti – isolamento crescente, perdita di sostegno nelle nuove generazioni occidentali, tensioni con alleati storici – per un’operazione che sul piano tattico poteva essere conclusa mesi fa.

La risposta non sta nelle dinamiche interne della politica israeliana. Sta in una dimensione più ampia, sistemica, che collega Gaza a trasformazioni geopolitiche globali in corso. Tre livelli vengono ignorati sistematicamente.

Primo, Gaza non è solo teatro di operazioni militari ma laboratorio di ristrutturazione territoriale, dove si sperimenta un nuovo modello di controllo.
Secondo, il conflitto alimenta economie della difesa e della ricostruzione che prosperano sulla distruzione prolungata. Terzo, e più importante: questa guerra non accade in isolamento. Si intreccia con altri conflitti — Ucraina in testa — in una logica che ridisegna equilibri di potere planetari.

Per capire Gaza bisogna guardare oltre il Medio Oriente. Bisogna vedere il disegno che si nasconde dietro il rumore.

La guerra come infrastruttura di governance

Ristrutturazione territoriale: Gaza come spazio governabile

L’operazione militare non mira a una conquista classica. Mira a smantellare le strutture di potere di Hamas e rendere Gaza uno spazio amministrabile dall’esterno. Non si tratta di annessione, ma di creazione di dipendenza. Distruggere ospedali, scuole, infrastrutture civili non è solo danno collaterale: è azzeramento delle capacità organizzative autonome. Quel che emerge dai piani discussi nei think tank israeliani e internazionali è una visione di “pacificazione condizionata” dove Gaza diventa laboratorio di governance tecnologica, controllata tramite checkpoints digitali, sorveglianza pervasiva, ricostruzione vincolata. La popolazione resta, ma il territorio viene rimodellato secondo logiche di sicurezza permanente.

È la trasformazione di un’enclave ribelle in periferia sotto tutela. Sul piano interno israeliano questo produce coesione immediata attorno alla minaccia esistenziale, ma è effetto secondario rispetto al progetto di riconfigurazione territoriale.

L’economia del conflitto permanente

Ogni guerra genera flussi economici: contratti per armamenti, sistemi di difesa, droni, intelligence artificiale applicata alla sorveglianza. Israele è tra i maggiori esportatori mondiali di tecnologie militari, e ogni conflitto diventa vetrina operativa. Ma c’è di più. La distruzione massiva apre mercati della ricostruzione: appalti per infrastrutture, logistica, sicurezza privata. Attori pubblici e privati si posizionano già per la fase successiva. Non è complottismo: è documentato in studi accademici e analisi economiche. Il ciclo distruzione-ricostruzione alimenta economie parallele che prosperano sul conflitto prolungato. La guerra non è evento eccezionale, è infrastruttura economica che produce valore per chi sa come estrarlo.

La dimensione cognitiva

Il conflitto funziona anche come dispositivo percettivo. La demonizzazione dell’avversario, la spettacolarizzazione della violenza, il flusso ininterrotto di immagini trasformano la guerra in produzione di paura come merce e strumento di controllo. All’interno consolida il senso di assedio, all’esterno alimenta un antisemitismo reattivo e irrazionale che confonde critica politica con odio etnico. La guerra si nutre di se stessa e, in un contesto così frammentato e non-cosciente, ogni distruzione produce il combustibile per quella successiva.

I due fronti di un’unica trasformazione

Febbraio 2022: la Russia invade l’Ucraina. Ottobre 2023: Hamas attacca Israele, Israele devasta Gaza. Due conflitti, due continenti, stessa finestra temporale. La simultaneità non è coincidenza. È sintomo di una frattura più profonda: l’ordine mondiale sta cambiando pelle, e la violenza è il linguaggio della transizione.

Ucraina: l’acceleratore del multipolarismo

L’invasione russa dell’Ucraina non è solo aggressione territoriale. È la dichiarazione formale che l’ordine unipolare guidato dagli Stati Uniti è finito. 

Putin non combatte solo per il Donbass: combatte per dimostrare che l’Occidente non può più imporre regole al resto del mondo. Le sanzioni occidentali, invece di piegare Mosca, hanno accelerato la costruzione di circuiti economici alternativi.
I BRICS si espandono, la de-dollarizzazione avanza, il commercio si riorganizza lungo direttrici Sud-Sud. La Cina osserva, calcola, prepara la propria mossa su Taiwan. L’India negozia con tutti. Il cosiddetto Global South non sceglie più automaticamente l’Occidente: negozia al rialzo, sfrutta le fratture. La guerra in Ucraina non è un conflitto regionale. È il laboratorio dove si sperimenta la fine dell’egemonia americana.

Gaza: il contrattacco per mantenere il controllo

Mentre l’ordine unipolare si sgretola a Est, Washington deve blindare ciò che ancora controlla. Il Medio Oriente è la frontiera strategica: petrolio, rotte commerciali, proiezione militare verso Asia e Africa. Israele non è solo alleato: è avamposto, base operativa, laboratorio tecnologico militare. La guerra a Gaza non serve solo a Israele per neutralizzare Hamas. Serve agli Stati Uniti per riaffermare: “Qui comandiamo ancora noi”. Il messaggio è rivolto a Iran, Russia, Cina, e soprattutto ai paesi arabi che stavano normalizzando i rapporti con Israele su basi non controllate da Washington. La distruzione di Gaza è anche un segnale: chi tenta autonomie strategiche in questa regione paga un prezzo altissimo. Non è genocidio casuale. È geometria del potere.

La convergenza: due guerre, un solo disegno

I due conflitti non sono paralleli: sono intrecciati. Ucraina apre la crepa nel vecchio sistema. Gaza la contiene, impedendo che quella crepa diventi voragine. Insieme producono militarizzazione permanente delle economie occidentali, polarizzazione ideologica globale, accelerazione tecnologica militare (intelligenza artificiale, droni autonomi, cyberwarfare), e soprattutto: normalizzazione della guerra come condizione strutturale. Non stiamo assistendo a crisi temporanee. Stiamo assistendo alla nascita di un nuovo ordine che si fonda sul conflitto continuo. La guerra non è più eccezione: è infrastruttura. Non più rottura della pace, ma metodo di governance globale.

La domanda non è se ci sarà un’escalation. La domanda è se sapremo riconoscere che l’escalation è già in corso.

Gli scenari estremi e la scelta necessaria

Tre scenari possibili, nessuno rassicurante, tutti evitabili se la politica tornasse a essere tale.

Scenario uno: escalation coordinata

Tensioni simultanee su più fronti — Taiwan, Balcani, Caucaso, Medio Oriente allargato. Il sistema internazionale collassa in blocchi contrapposti. Non una guerra mondiale dichiarata, ma conflitti regionali simultanei che producono lo stesso effetto: distruzione diffusa, economie militarizzate, società permanentemente mobilitate. La Terza Guerra Mondiale a rate.

Scenario due: nuovo ordine imposto dal caos

Dopo abbastanza distruzione, le potenze negoziano nuove regole. Ma le regole le scrive chi ha resistito meglio al caos, chi ha accumulato più potere durante il conflitto. Non sarà pace: sarà una forma di logoramento istituzionalizzato. Un equilibrio del terrore aggiornato, dove la guerra resta sempre possibile, sempre imminente, sempre funzionale a chi governa.

Scenario tre: normalizzazione della guerra permanente

Nessuna escalation totale, nessuna pace definitiva. La guerra diventa condizione normale dell’esistenza collettiva. Economie, politiche, tecnologie, identità organizzate attorno al conflitto continuo. Generazioni cresciute nell’emergenza permanente. Questo è lo scenario più probabile. Ed è quello più funzionale al sistema attuale.

Di fronte a questi scenari, l’unica risposta razionale è comprendere i meccanismi che li producono. Nessuno di questi esiti è inevitabile, ma diventano probabili se continuiamo a leggere la guerra con categorie inadeguate. La pace non può essere semplice cessate il fuoco: richiede smontare l’intera architettura che rende il conflitto necessario al potere. Richiede riconoscere che dietro ogni bombardamento c’è un calcolo, dietro ogni vittima una logica di governance, dietro ogni dichiarazione bellicosa un interesse strutturale che trascende ideologie e confini.

La scelta della pace è l’unica strategia razionale per chi non vuole vivere in un mondo dove la guerra è diventata il linguaggio unico del potere.

Stefano Pierpaoli
8  ottobre 2025

Stefano Pierpaoli

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