Orientarsi nel disordine
Ci sono momenti in cui il mondo sembra sgretolarsi sotto i nostri piedi. Non a causa di una singola catastrofe, ma per la somma di fratture multiple: ambientali, sociali, politiche, simboliche. L’aria è intrisa di crisi, le parole perdono il loro significato, e l’agire sembra privo di direzione.
Questo testo nasce nel cuore di quel disordine. Non intende ordinarlo, ma cerca di orientarsi.
Non ci sono soluzioni preconfezionate, né riflessioni astratte: sei strade per attraversare il nostro tempo e immaginare il prossimo. Sei snodi che abbracciano la responsabilità individuale, la fragilità ecologica, il bisogno di pensiero, la fame di giustizia, la necessità di immaginare e la possibilità di cambiamento.
Non sono capitoli, ma inviti.
A rallentare. A capire. A scegliere. A disobbedire. A costruire.
Questo non è un manifesto. È un atlante provvisorio per chi non si rassegna. Per chi crede che un altro modo di vivere sia possibile. Per chi sente che il tempo degli alibi è finito.
Sei prospettive, un orizzonte: rimettere al centro ciò che conta. In un presente che sembra deragliare, mettiamo in campo i punti di partenza.
Pensare, agire, essere
“Liberi possiamo solo sognarci”
Spinoza
La libertà altro non è se non un traguardo da raggiungere. Nessuno di noi può definirsi libero ma ciascun individuo deve poter aspirare ad esserlo. Quello verso la libertà è un percorso impegnativo che ci costringe ad affrontare sentieri per lo più in salita. È un itinerario fatto di studio e di ricerca, in cui i più assidui compagni di viaggio saranno sempre, per fortuna, il dubbio e l’incertezza.
Sono proprio queste due scomode presenze che diventano però uno stimolo benefico per oltrepassare i confini, i muri, i limiti della nostra limitatezza e della nostra ignoranza.
Spogliare del suo significato la libertà e così facendo liberarsi da domande scomode e da interrogativi complessi, causa l’interruzione di quel faticoso cammino verso la libertà stessa. È una scelta atroce e colpevole che ci porta a godere di un eterno attimo di assenza. Dal mondo, dalla storia, da noi stessi.
Nell’animo dell’ignorante, del fluttuante, il dubbio si trasforma di olito in sospetto. Le sue certezze albergano nell’oscurità del non sapere. Egli, di fatto, non può far altro che restare immobile in un cunicolo di convinzioni becere e plastificate.
Da troppi anni abbiamo preferito percorrere soltanto le discese. Ma rotolare verso il basso non è mai una buona strategia.
Se oggi dovessimo cercare un pensiero degno di chiamarsi tale (ricordate le correnti di pensiero?) naufragheremmo in una baraonda di opinioni e chiacchiericci. Nella confusione di un bar in cui si resta seduti per rimandare qualcosa.
La nostra è un’epoca in cui il pensiero è stato relegato a una funzione decorativa, distante dalle funzioni che dovrebbe avere. Non è un caso che siamo diventati maestri della distrazione e tossici dello svago.
Eppure, il pensiero è l’atto primario che ci permette di liberarci dalle decisioni imposte, consente di ridefinire il nostro ruolo nel mondo e scegliere consapevolmente.
La riflessione è il primo passo per la libertà. L’attività del pensare è una forma di resistenza contro l’asservimento e l’omologazione. Pensare, quindi, è un atto di libertà, che consente di interrogare il mondo e immaginare alternative a un presente che altrimenti viene stabilito da logiche che sfuggono al controllo collettivo.
In un mondo in cui il pensiero critico sembra sempre più sacrificato sull’altare dell’efficienza e della rapidità, è essenziale riappropriarcene. Esso è lo strumento che ci permette di confrontarci con la realtà, di sfidarla, di interpretarla e di agire in modo autentico. Non si tratta di un esercizio solitario, ma di un processo collettivo: attraverso il pensiero, possiamo progettare un futuro diverso, capace di rispondere alle sfide del nostro tempo.
La nostra società è dominata dall’automatismo e dalla logica consumistica ed è qui che il pensiero deve diventare un gesto rivoluzionario, di disobbedienza rispetto a ciò che è dato per scontato ed è un modo per liberarsi dalle narrative imposte dai poteri dominanti.
Pensare è l’azione che accompagna, precedendola, ogni altra forma di cambiamento, che ci permette di abbandonare la passività e di fare scelte individuali, sociali e politiche più consapevoli.
Il pensiero è, insomma, il terreno fertile in cui cresce l’azione.
La cura della mente e la capacità di riflessione sono pratiche quotidiane che possono trasformarsi in resistenza attiva, in azioni concrete, in gesti anche piccoli che, se moltiplicati, possono smuovere il mondo.
È questa una delle basi da cui partire per ogni iniziativa che aspiri a cambiare qualcosa.
Recuperare la preziosità della nostra mente è un atto d’amore universale perché ci restituisce alla vita nel suo attraversarla con armonia e fiducia.
Contare su questa ricchezza, pensiamoci bene, è una garanzia contro la violenza e contro la guerra
La politica del reale
Politica: “costruire città”
πόλις (pólis) è la città-stato dell’antica Grecia: non solo un luogo fisico, ma una comunità organizzata, dove si viveva insieme e si prendevano decisioni collettive.
τέχνη (téchnē) è arte e competenza del vivere comune, fondata sul legame tra gli individui nella polis.
Dall’unione di queste parole nasce il termine “politica”.
Per Aristotele, l’essere umano è per natura un ζῷον πολιτικόν (zōon politikón), un “animale politico”: l’unico capace di costruire città, trovando il proprio senso solo nella vita condivisa con gli altri.
La politica non è mai potere ma è la capacità di costruire la convivenza, di cercare insieme il bene comune.
Nella riflessione sulla rigenerazione delle nostre comunità, questo argomento riveste un ruolo prioritario: edificare i mondi che abitiamo e renderli sempre più confortevoli, sostenibili, solidali. Luoghi quindi che siano motori evolutivi di civiltà e di umanità.
Si fa un gran parlare della distanza tra ciò che erroneamente viene definito politica e i cittadini. Ma di quale distanza si parla?
In realtà la politica non è mai stata così vicina, così amalgamata all’analfabetismo collettivo e confusa nell’approssimazione dei popoli.
La sua fame di consenso le impone rituali elementari in una propaganda da social perfettamente combaciante con le idiozie che ci si scambia nei post.
Le classi dirigenti dei partiti sono ormai formate da una teppaglia di carrieristi da spiaggia che poco si discostano dalla mediocrità dei reality show.
Sono l’espressione perfetta della società dello spettacolo: ipocriti, fasulli e subalterni.
Ad essersi allontanato dalle persone è semmai il potere nella sua espressione più spietata, il quale appartiene ormai a entità totalmente separate dal mondo dei mortali. È tuttavia superfluo impantanarsi nel dedalo delle recriminazioni contro i grandi capi. Non abbiamo più nessuna chance di riequilibrare i sistemi.
Sarebbe compito della politica, qualora esistesse, limitare l’incontrastabilità della sua egemonia. Essa e nient’altro avrebbe la responsabilità di creare i contrappesi per compensare i dislivelli del presente.
La verità è che la politica non guida più il presente: lo insegue, lo rincorre, lo subisce. È diventata funzionale a chi detiene il potere economico, ostaggio delle grandi lobby, delle multinazionali, dei colossi digitali. Le scelte cruciali — energia, lavoro, ambiente, salute — non tengono più conto del confronto democratico, ma passano su tavoli opachi, trattative riservate, equilibri di potere invisibili.
Questo scenario ci dice che quella della politica non è una distanza ma una vera e propria assenza. Non c’è altra scelta, per i cittadini, che premere alle porte dei partiti per pretendere il rinnovamento delle classi dirigenti. C’è urgente bisogno di menti, anime ed esperienze che siano in grado innanzitutto di interpretare questo tempo in presenza di una visione di futuro. Di una capacità di prevedere e quindi poter programmare.
Per far sì che questo avvenga occorre per prima cosa ideare nuove forme di partecipazione. Mi riferisco non a strambe formule di democrazia diretta talvolta evocate, che aprono il campo all’autorappresentazione di corpi astratti che riproducono i germi delle dittatura.
Parlo di un innalzamento intellettuale dei vertici politici che traghetti l’espressione del voto, l’esercizio della sovranità popolare e gli strumenti di controllo sulla gestione della “cosa comune” verso un’area di protagonismo democratico. La democrazia si regge sul consenso ma non lo crea.
Ripensare la politica non significa salvare la democrazia con un maquillage moralistico: significa rifondarla da zero, partire dai suoi capisaldi. Riconsegnare potere decisionale a chi subisce le conseguenze delle decisioni. Aprire spazi reali di partecipazione, non solo consultazioni formali. Decentralizzare, disintermediare, rompere il monopolio della rappresentanza.
Bisogna uscire dalla retorica della delega e dell’alibi istituzionale. La democrazia non è fatta di riti, ma di conflitti, di domande scomode, di pressioni dal basso. È lotta permanente contro ogni forma di abuso, anche se mascherato da interesse generale. La politica del reale è quella che tocca la vita, che nasce dove c’è sofferenza, non dove si emettono comunicati di 10 righe.
Le grandi sfide del nostro tempo, dalla crisi climatica alla disuguaglianza economica, richiedono risposte collettive e coraggiose. Ma queste risposte non possono essere più il frutto di decisioni estranee ai vincoli etici e lontane dalle esperienze dirette delle persone.
Solo attraverso una partecipazione attiva e consapevole possiamo sperare di costruire una politica che rispecchi veramente le necessità e le aspirazioni della società.
Impossibile però che questo si verifichi in presenza di classi dirigenti inette, disoneste e profondamente subalterne ai soggetti dominanti.
Una coscienza per la Terra
Il contraffatto benessere contemporaneo poggia su una terra che si sgretola sotto i piedi.
L’ambiente è diventato un tema da convegno, una bandiera da esibire, un’appendice del marketing. Le dichiarazioni d’intenti non fermeranno la devastazione.
La Terra è stata ridotta a una risorsa da sfruttare, dimenticando il legame profondo che ci unisce a essa. Dovrebbe però essere molto evidente che ha esaurito la pazienza, qualora ne abbia mai avuta, e pretende soluzioni alle quali è legato anche il nostro destino. La sua non è una richiesta di pietà ma di alleanza.
La consapevolezza di una catastrofe è il primo passo per ricostruire una nuova coscienza ecologica. Per farlo, dobbiamo imparare a rallentare, a ricordare e a relazionarci con il nostro ambiente in modo nuovo e rispettoso.
Ricostruire interiorità e comunità significa riscoprire l’importanza della nostra connessione con la natura, non come soggetto separato, ma come parte di un ecosistema interconnesso.
La natura non è un “fuori” da noi, ma un “dentro” imprescindibile dal nostro esistere.
Questo è il solo risveglio di coscienza che ci permetterà di sfidare la cultura del consumo e della produzione illimitata e di porre la Terra al centro delle nostre azioni quotidiane.
Ogni gesto può essere un atto di cura e la bellezza della natura può diventare la nostra più grande fonte di ispirazione e di rinascita.
Riprendere in mano la cura della Terra è anche un modo per recuperare un senso di comunità, un legame tra le persone che si fonda su valori condivisi e sul rispetto reciproco. Ogni volta che ci fermiamo (realmente) a osservare, quando ascoltiamo, quando “respiriamo il tempo” diventiamo più consapevoli di ciò che ci circonda e del nostro impatto sul mondo.
Rallentare, dunque, non è solo un modo per vivere più lentamente, ma una vera e propria necessità etica. Solo fermandoci, infatti, possiamo avvertire la gravità dei danni che stiamo causando al nostro pianeta e riscoprire il valore della sostenibilità come pratica fondamentale per il futuro.
Serve una nuova coscienza, che non sia solo ecologica ma esistenziale. Un modo diverso di abitare il mondo. Non più sedendoci sopra, ma camminandoci dentro. Non più consumatori e fotografatori di paesaggi, ma parti vive di un equilibrio. Questo significa smettere di considerare l’ambiente come un’estensione dei nostri bisogni e cominciare a riconoscerlo come condizione del nostro essere.
La crisi climatica non è una minaccia futura: è la conseguenza attuale del nostro pensiero predatorio. Pensare la Terra è un atto etico, politico e spirituale.
Significa diluire, osservare, restituire. Significa capire che ogni azione produce conseguenze. Che ogni essente ha un’origine e un destino. Che ogni scelta parla di chi siamo.
Una coscienza per la Terra non nasce dai dati, ma dallo stupore.
Dal silenzio davanti a un albero, dalla fatica di coltivare un pezzo di terra, dall’umiltà di capire che siamo ospiti e non padroni.
È lì che si ricostruisce l’interiorità perduta. È lì che può rinascere una comunità che non si fonda sul consumo ma sulla cura.
L’immaginazione è un dovere
Delicato e rischioso addentrarsi nell’analisi del nostro immaginario.
Ogni territorio apparentemente impalpabile subisce, più di altri, i condizionamenti mediatici e le lusinghe delle nostre insicurezze.
Il fascino seduttivo della manipolazione che abbiamo subito ci ha condotto nel recinto dei finti gaudenti. Eterni bambini che non possono mai annoiarsi e vivono immersi nei loro mille giocattoli. Ma un bimbo che non conosce la noia non vivrà mai il privilegio di veder sviluppare la propria fantasia.
Ciò che resta della nostra fantasia è collegata a impulsi esterni che ne limitano gli spazi e la poesia. Ciò che prima era frutto dell’inventiva della mente è ormai imprigionato nei format della fiction. Incatenati alla rappresentazione del non-reale, siamo vittime di una continua esibizione di cuori e di sorrisi, ostentandone la risposta affettiva e la manifestazione gratificante. Siamo ricchi del nulla e in quel nulla ci piace nuotare.
Volare più in alto è vietato dai sovrani e i sudditi sanno bene quanto può essere frustrante ambire a sfarzi e ricchezze.
Ma l’immaginazione non è un lusso della mente, è un atto di responsabilità e di necessità. In un mondo dominato dalla narrazione di ciò che è già, l’immaginazione ci offre l’opportunità di sfidare il presente, di pensare ciò che non è ancora, di guardare oltre l’orizzonte delle possibilità date come obbligate e indiscutibili.
L’immaginazione diventa un dovere civico, un impegno per la creazione di nuovi significati, linguaggi e valori. Tutti fattori essenziali per navigare nel caos del nostro tempo.
Il mondo che conosciamo non è l’unico possibile e la storia ci insegna che ogni grande cambiamento è nato da un’idea, da una visione che ha sfidato lo stato delle cose. Quello in cui viviamo (se ancora è vivere) è stato considerato per troppo tempo come il migliore dei mondi possibili. Inalterabile e rassicurante.
È bene però sapere che non è mai successo e mai succederà che un assetto sociale non subisca stravolgimenti e profonde evoluzioni. Questo “bel mondo” conoscerà il suo epilogo e probabilmente noi ne saremo testimoni.
L’immaginazione è la capacità che ci permette di vedere il mondo come potrebbe essere, non come è stato imposto che fosse. Non è una fuga dalla realtà, ma è un suo approfondimento. È nella capacità di immaginare che si trova la forza di combattere il nichilismo che minaccia di annientare il nostro desiderio di cambiamento e di buone novità. Pensare al possibile, al desiderato, a ciò che ancora non esiste, è il motore che ci spinge ad agire per rendere concreto ciò che sogniamo.
Immaginare è anche un atto di resistenza contro le narrazioni dominanti che spesso ci presentano il futuro come un processo inevitabile, un destino già scritto senza possibilità di scampo.
Ma è proprio in questi momenti che l’immaginazione diventa una scelta politica: rompere gli scenari imposti, creare nuove visioni, nuovi paradigmi. Questo è il passo fondamentale per chi vuole rifiutare la rassegnazione e costruire un futuro alternativo.
Questo processo di immaginazione collettiva non deve essere solo una riflessione intellettuale ma deve tradursi in atti concreti: nuove pratiche sociali, nuovi linguaggi, nuove forme di relazione che ci permettano di vivere in modo più giusto e più sostenibile.
Immaginare è, quindi, un atto che ci responsabilizza, che ci spinge a trasformare i sogni in azioni concrete, a non cedere mai alla passività del presente.
La cultura piegata al mercato, o meglio quello che ormai siamo obbligati a considerare cultura, ha smesso di generare senso e ha cominciato a produrre contenuti. L’arte si è fatta algoritmo, la creatività si è fatta tendenza e l’immaginazione è diventata marketing.
Ma immaginare davvero significa destabilizzare. Inventare altri modi di essere, di vivere, di lottare.
Serve un’immaginazione ferocemente lucida. Che guardi in faccia la violenza del presente, senza piegarsi al presente. Che generi linguaggi nuovi e futuri non autorizzati.
È tempo di ridare dignità al nostro lecito sognare con responsabilità. Solo chi immagina può trasformare.
Etica della complessità
Che bello, 30 anni fa, quando tutto è sembrato così semplice e a portata di mano. E poi la velocità del Web, l’orizzontalità della Rete, la democrazia digitalizzata e senza limiti.
Qualcuno ha cominciato perfino a esportarla, la democrazia. Pare che ne abbia esportata troppa e sia rimasto senza ma questa è un’altra storia (manco per niente). Eravamo tutti così immersi nell’epoca delle grandi e irremovibili certezze che pian piano le abbiamo perse tutte. Per fortuna, nessuno di quei convincimenti aveva un qualcosa di reale, forse nemmeno di umano, ma sta di fatto che ormai c’eravamo abituati alla facilitazione del tutto.
Retorica, simulazione, finzione e demagogia erano i nostri piatti preferiti serviti ai tavoli del consenso e del moralismo. Potevamo scegliere sempre tra due fazioni, due colori, due facce. È fantastico il mondo diviso in due categorie. Ed è così facile abitarlo. Elmina perfino la coscienza di viverlo.
Peccato che la realtà, la storia, la natura siano sistemi complessi ai quali poco interessa il nostro piacere per ciò che è più comodo. E attenzione: ogni nostra azione ha conseguenze che si estendono in tante direzioni. Anche se non lo vogliamo o non ce ne accorgiamo, dalla vita o da qualche sua derivazione arriverà un conto da pagare.
La sfida del nostro tempo è imparare a pensare in termini di complessità, ad agire con intelligenza e rigore, senza ridurre mai le questioni a verità univoche e preconfezionate.
La complessità non deve spaventarci: è la struttura intrinseca del nostro mondo. Imparare a viverci significa accettare che le risposte facili e immediate non esistono e che le soluzioni a problemi complessi richiedono approcci variabili, interconnessi e multilivello.
L’etica della complessità implica che ogni decisione, ogni atto, deve essere preso con piena consapevolezza delle sue implicazioni a lungo termine e delle sue ripercussioni sugli altri.
Pensare con rigore non significa inseguire certezze assolute ma sapersi orientare in un panorama di incertezze, cercando la verità non in un’unica risposta ma in una pluralità di prospettive che possano arricchire il nostro campo di visione.
Occorre quindi agire con misura, che vuol dire fare scelte consapevoli, che tengano conto della complessità degli equilibri ecologici, economici e sociali.
Cercare di evitare, per quanto possibile, di cedere all’impulso verso scelte che possono sembrare risolutive nel breve periodo ma che possono diventare dannose a lungo termine.
In questa prospettiva, la politica e l’azione collettiva devono essere guidate da una visione della società come un ecosistema complesso, in cui ogni elemento è interconnesso con gli altri. Non possiamo più pensare in termini di risposta immediata ma dobbiamo adottare una strategia che metta insieme intelligenza collettiva, pazienza e visione a lungo termine.
La sfida sta nel riconoscere la complessità e nel saperla affrontare con responsabilità e saggezza, senza cedere alla tentazione di semplificare sempre tutto.
L’etica della complessità è un antidoto alla banalità del bene e del male. È il rifiuto delle soluzioni rapide, delle sentenze morali precotte, della semplificazione come forma di potere.
Significa abitare l’incertezza senza soccombervi. Significa fare scelte nonostante il dubbio, assumendosi fino in fondo la responsabilità delle conseguenze.
In un tempo che premia la velocità, il pensiero complesso è un atto controculturale. Non produce slogan, ma strumenti. Non consola, ma attrezza. Non esaurisce, ma apre.
Pensare in modo complesso significa rifiutare il determinismo e accettare che il cambiamento sia un processo lento, a tratti contraddittorio, ma possibile.
Utopia concreta
È triste osservare quanto sia stato banalizzato questo straordinario motore della storia. Tommaso Moro (1516), Franceso Bacone (1627), Tommaso Campanella (1602), Étienne Cabet (1840) e tutti i grandi utopisti del passato teorizzavano scenari possibili per società governate da sistemi equi, efficienti e socialmente evoluti. La loro visione era orientata verso un modello etico in cui il progresso scientifico coincidesse con il progresso morale.
Tutti noi siamo figli di quel pensiero e le nostre società contemporanee, le nostre democrazie, la nostra civiltà stessa provengono da quelle menti e da quelle utopie.
Rinchiudere l’utopia in una dimensione astratta e confusa è un’operazione misera e perversa perché ci incatena a tutte le oppressioni del presente.
Siamo stati addestrati per essere abituati al peggio in una perenne sensazione di emergenza. Rassegnati, fatalisti, superstiziosi e convinti che il minimo raggiungibile sia tutto ciò a cui possiamo aspirare.
L’utopia concreta è ciò che si oppone a questo realismo tossico. È la scelta tenace che si incarna nei gesti quotidiani e nei progetti collettivi che, pur partendo da un’idea alta, sono in grado di incidere tangibilmente sulla realtà.
Costruire un mondo diverso significa fondarlo su relazioni diverse, su bisogni veri, su desideri condivisi. Non bastano le proteste indotte e spettacolari, serve l’invenzione di forme nuove. Comunità, economie, linguaggi, azioni ordinarie che raffigurino già oggi il domani che vogliamo. È lì che la politica ritrova senso, che la cultura rinasce come forza trasformatrice.
L’utopia concreta non è un futuro lontano e irraggiungibile ma una possibilità che deve essere continuamente costruita nel presente. Non è un’idea che si percorre sui libri ma un movimento che si traduce in esperimenti sociali, in nuove forme di comunità, in scelte che rispondano alle sfide reali della nostra epoca.
Ogni piccola iniziativa che promuove la solidarietà, la sostenibilità, la giustizia sociale è una parte di questa utopia concreta che può crescere e diffondersi.
La storia ci ha mostrato che ogni grande cambiamento è nato dalla convinzione che un altro mondo fosse possibile e che questo mondo non doveva essere atteso ma costruito grazie all’operato di ognuno di noi. È nell’incontro tra il sogno e la realtà che nasce la possibilità di un nuovo modo di vivere insieme e la speranza che la trasformazione sia sempre e comunque possibile.
Utopia concreta è mutualismo, cooperazione, giustizia riparativa. È un welfare auto-organizzato, un’istruzione liberata dalla competizione, un’economia che non uccide ma sostiene. Non sarà tutto e subito. Ma tutto comincia nel piccolo, nell’ostinazione di chi non accetta l’ovvio e costruisce l’improbabile. A mani nude.
Una nuova cultura della consapevolezza
Non si esce da questa crisi con aggiustamenti cosmetici o con parole d’ordine riciclate. Servono rotture. Serve una nuova grammatica del possibile, che non nasca dall’ottimismo ma dalla responsabilità.
Questo tempo ci impone di scegliere o tra la paralisi o la costruzione. Tra il silenzio o la parola che crea contraddizione. Tra il cinismo degli sconfitti o il progetto dei rivoluzionari.
La consapevolezza è sicuramente un esercizio individuale ma deve confluire in una grande azione collettiva.
Possiamo considerarla una condizione indispensabile ma faremo meglio a trasformarla in pratica consueta nelle costruttive armonie delle nostre comunità.
Raggiungerla costituirà una grande vittoria ma non per questo ne sapremo di più. Semmai avremo imparato a “sentire” la vita in modo diverso e più ricco.
Una cultura della consapevolezza è quella che rifiuta la marginalità come stile di vita, la neutralità come maschera, la velocità come virtù. È quella che rimette al centro il legame, la cura, la voce. Tutti fattori che alimentano la relazione e il riconoscimento dell’altro.
In questa trilogia di analisi, filosofia e visione c’è un tentativo umile di tracciare un sentiero. Non ci sono mappe universali o ricette magiche perché per fortuna non esistono.
Sappiamo che sta succedendo qualcosa e se fossimo su una nave, la fiducia per coloro che sono sul ponte di comando sarebbe uguale a zero. E non è un bel vivere.
Veniamo invitati a restare nelle nostre cabine e invece abbiamo bisogno di uscire per salvarci e quindi di aperture. Per pensare, per agire, per immaginare il mondo che desideriamo abitare.
Se il presente si chiama uragano non basta interpretarlo. Bisogna affrontarlo, forzarne i limiti, trasformarlo. Di certo non passerà in un giorno e allora avremo bisogno di sana tensione progettuale e di coraggiosa coerenza quotidiana. Solo così si trova la rotta giusta e si attraversano le burrasche.
Forse viviamo il tempo nel quale dobbiamo guardarci negli occhi e dirci che tocca a noi.
Perché la storia non cambia da sola. Cambia quando qualcuno la prende in mano e unendosi a tanti altri la porta lontano dalle tempeste, dalla paura, dalla guerra.
Stefano Pierpaoli
27 aprile 2025
Il nuovo ordine mondiale
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