Intelligenza artificiale
Chi sei uomo?
Io, da solo, contro tutti
Individualismo vs intelligenza collettiva
L’individualismo italiano non è quello anglosassone della self-reliance, né quello francese dell’autonomia illuministica. È un individualismo particolare, che potremmo definire “individualismo di sopravvivenza”: la tendenza a fare affidamento solo su se stessi non per principio filosofico, ma per sfiducia sistemica verso tutto ciò che è collettivo, pubblico, condiviso.
L’individualismo come ideologia del “farcela da soli”
Questo individualismo affonda radici storiche profonde. Lo storico Carlo Ginzburg, nei suoi studi sulla cultura popolare italiana, ha documentato come la frammentazione politica medievale abbia prodotto una cultura della diffidenza verso l’autorità centrale e della creatività individuale nella sopravvivenza. Ma quello che era strategia di sopravvivenza in contesti di instabilità politica è diventato mentalità permanente in contesti di stabilità democratica.
Il sociologo Robert Putnam, nel suo celebre studio “Bowling Alone” (2000), ha analizzato il declino del “capitale sociale” nelle società occidentali. Ma il caso italiano presenta caratteristiche peculiari.
Mentre negli Stati Uniti il declino dell’associazionismo è fenomeno recente, in Italia la sfiducia verso le istituzioni collettive è strutturale. I dati ISTAT 2022 mostrano che solo il 18% degli italiani si fida delle istituzioni pubbliche, contro una media europea del 35%.
Edward Banfield, nel suo controverso studio “The Moral Basis of a Backward Society” (1958) sul Mezzogiorno italiano, aveva coniato il termine “familismo amorale” per descrivere una cultura in cui la solidarietà si limita alla famiglia estesa, mentre tutto il resto della società è percepito come territorio ostile. Pur con tutti i limiti metodologici di quello studio, il concetto mantiene una sua forza descrittiva.
Il paradosso: L’individualista che diventa dipendente
Ma l’individualismo italiano presenta un paradosso: chi afferma di voler fare da solo finisce per essere completamente dipendente da reti informali di protezione. Non solo la dipendenza dichiarata del welfare state, ma quella nascosta del clientelismo, della raccomandazione, del favor.
Il politologo Gianfranco Pasquino parla di “individualismo collettivista” per descrivere questa contraddizione: l’individuo che rifiuta la mediazione delle istituzioni formali ma non può sopravvivere senza le mediazioni informali.
Il risultato è una società ad alto tasso di “transazione sociale” (tutto si ottiene attraverso scambi informali) ma basso tasso di “partecipazione sociale” (pochi si impegnano in progetti collettivi).
Questa dinamica produce quello che il sociologo Diego Gambetta chiama “equilibrio di bassa fiducia”: una situazione in cui tutti diffidano di tutti, ma proprio per questo tutti hanno bisogno di tutti. Non la fiducia che nasce dalla condivisione di valori, ma la fiducia che nasce dalla condivisione di sfiducia.
L’individualismo digitale: La solitudine connessa
I media digitali hanno amplificato queste tendenze. Il sociologo Sherry Turkle, del MIT, ha documentato come le tecnologie digitali producano “solitudine connessa”: l’illusione di essere in relazione con altri mentre in realtà si rimane isolati nella propria bolla cognitiva.
Nel contesto italiano, questo fenomeno assume caratteristiche particolari. L’individualismo digitale si manifesta come proliferazione di opinioni personali senza confronto reale, come costruzione di identità attraverso opposizione ad altri, come ricerca di visibilità individuale in assenza di progetti collettivi.
I social media italiani mostrano tassi di polarizzazione superiori alla media europea. Uno studio del 2022 dell’Università di Milano ha rilevato che gli utenti italiani di Facebook hanno una probabilità 40% superiore rispetto agli utenti di altri paesi di condividere contenuti divisivi, mentre hanno una probabilità 30% inferiore di partecipare a discussioni costruttive.
Il confronto con l’IA: L’apprendimento come processo sociale
L’intelligenza artificiale ci mostra che l’apprendimento è intrinsecamente un processo collettivo. Un modello di linguaggio come GPT-4 non è intelligente perché è “individualmente” sofisticato, ma perché è stato addestrato su testi prodotti da milioni di persone nel corso dei secoli. La sua “intelligenza” è letteralmente intelligenza collettiva cristallizzata.
Più profondamente, l’IA ci mostra che la conoscenza è sempre socialmente distribuita.
Nessun essere umano individuale possiede tutta la conoscenza necessaria per costruire uno smartphone, per far funzionare un ospedale, per gestire una città. Quello che chiamiamo “intelligenza individuale” è sempre il risultato di una rete di relazioni, competenze, strumenti che trascendono l’individuo.
Il filosofo Andy Clark, nei suoi studi sulla “cognizione estesa”, ha dimostrato come la mente umana funzioni sempre attraverso l’interazione con l’ambiente sociale e tecnologico. Pensare non è un processo che avviene “dentro la testa”, ma un processo che si distribuisce tra cervello, corpo, strumenti, relazioni sociali.
Il caso italiano: Dal comunitarismo al nicchismo
L’Italia ha una tradizione storica di comunitarismo che va dalle comunità rurali alle città-stato medievali, dalle confraternite religiose alle associazioni operaie, dalle cooperative alle società di mutuo soccorso. Questa tradizione è entrata in crisi negli ultimi decenni senza essere sostituita da nuove forme di solidarietà.
Il risultato e un “arcipelago Italia“: una frammentazione in nicchie che non comunicano tra loro. Non più comunità allargate, ma tribù ristrette. Non più solidarietà universale, ma protezione particolare.
Questo fenomeno è particolarmente evidente nel mondo del lavoro. Mentre in altri paesi la flessibilizzazione del lavoro ha prodotto nuove forme di solidarietà (sindacati di freelance, cooperative di servizi, reti professionali), in Italia ha prodotto ulteriore individualizzazione. Ognuno deve cavarsela da solo, e chi non ce la fa è percepito come perdente individuale, non come vittima di dinamiche sistemiche.
L’illusione dell’autonomia
Ma l’individualismo italiano nasconde un’illusione: quella dell’autonomia. Chi dice “io me la cavo da solo” spesso dipende da reti di supporto che non riconosce come tali. La famiglia che finanzia il mutuo, la raccomandazione che apre la porta, l’evasione fiscale che scarica i costi sulla collettività.
Il filosofo Alasdair MacIntyre, in “After Virtue” (1981), ha mostrato come l’individualismo moderno sia una finzione: nessuno diventa individuo da solo, ma sempre attraverso tradizioni, comunità, linguaggi che sono necessariamente collettivi.
L’individuo “auto-fatto” è un’illusione che nasconde i debiti verso la società.
Nel contesto italiano, questa illusione diventa particolarmente problematica perché impedisce di riconoscere e affrontare i problemi sistemici. Se tutti i problemi sono individuali, non ci sono soluzioni collettive. Se tutti devono farcela da soli, non c’è bisogno di investire in beni pubblici.
Verso un’intelligenza collettiva
Il confronto con l’intelligenza artificiale ci pone di fronte a una domanda fondamentale: possiamo collaborare con macchine che sono letteralmente intelligenza collettiva cristallizzata se non sappiamo collaborare tra di noi?
L’IA ci mostra che il futuro appartiene a forme di intelligenza distribuita, networked, collaborative. Ma per partecipare a questo futuro dobbiamo superare l’illusione dell’individualismo e ricostruire forme di solidarietà adatte ai tempi contemporanei.
Non si tratta di tornare al collettivismo del passato, ma di inventare nuove forme di collaborazione che mantengano l’autonomia individuale dentro reti di interdipendenza riconosciuta e voluta.
Stefano Pierpaoli
18 giugno 2025
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