Il recente e sconcertante cambio di indirizzi nelle relazioni USA-Siria apre ulteriori scenari fino a poco tempo fa impensabili.
Cosa può aver spinto in modo così repentino l’avvicinamento di Trump al nuovo leader siriano al-Sharaa? Negli ultimi giorni, si sono inoltre registrati sviluppi significativi riguardanti gli accordi di fornitura bellica tra gli Stati Uniti e diversi paesi arabi, segnando un’importante evoluzione nelle relazioni geopolitiche e militari della regione.
Il Medio Oriente rappresenta un crocevia energetico ancora centrale (con tanti saluti alla transizione verde), un ponte terrestre e aereo tra Europa, Asia e Africa e un’area con statualità fragili, facilmente permeabili alla presenza militare.
Last but not least è un laboratorio di guerra ibrida e controllo psicopolitico (come dimostrano Siria, Libano, Yemen).
Gli Stati Uniti stanno attuando accordi che sembrano non voler prevenire la guerra, ma prepararsi a modularla. I paesi assistiti sono attori funzionali in prospettiva anti-Cina, anti-Russia o anti-Turchia secondo necessità.
Cercano di disarticolare il fronte nemico in modo che nessuna coalizione alternativa possa emergere con chiarezza.
Non sembrerebbe una strategia di pace quanto di predominio condizionato in un conflitto “controllato” dove gli USA conservano l’agibilità tattica in ogni quadrante.
Questa strategia conferma la trasformazione della guerra in strumento ordinario di governance ma aggiunge il crollo delle alleanze storiche come vincoli morali o ideologici (prima fra tutti la NATO).
Si delinea l’orizzonte di un mondo diviso in blocchi, ma sempre più fluido nei confini del potere.
In questo quadro la questione palestinese diventa paradigmatica rispetto ai processi di normalizzazione della guerra, di gestione autoritaria del conflitto e testimonia dolorosamente il mutamento profondo dell’ordine internazionale.
Il Medio Oriente potrebbe diventare un fronte secondario di contenimento in quanto un perno strategico per la logistica bellica globale e il silenzio del mondo sul genocidio di Gaza diventerà il segnale più eloquente della definitiva subordinazione del diritto internazionale agli equilibri di forza.
E della sconfitta della nostra umanità
Ci sono argomenti che non si possono affrontare senza prima chiarire da dove si parla e assumersi in tal modo la responsabilità della propria voce.
Nella mia vita ho avuto un rapporto profondo, concreto e quotidiano con il mondo ebraico. Per molti anni ho lavorato come commerciante di diamanti, un settore in cui la fiducia è tutto. E la fiducia, nel mio caso, si è costruita e mantenuta con partner ebrei con cui ho concluso affari importanti, anche per milioni di dollari, basati su una parola data, su un’intesa non scritta ma inalterabile. Ho imparato molto da loro.
Più tardi, nella mia sfera più privata, ho condiviso anni di vita e un matrimonio con una donna ebrea sefardita, la sola persona con cui io abbia mai deciso di sposarmi.
Sono esperienze che lasciano un segno e che insegnano. Mi hanno insegnato a conoscere e a rispettare la cultura ebraica nelle sue tante sfumature: nella sua forza intellettuale, nella sua memoria dolorosa, nella sua capacità di tenere insieme identità e diaspora.
Scrivo da una posizione che non è ostile ed è molto distante da ogni forma di antisemitismo. Non scrivo “contro” nessuno. Studio e approfondisco per capire di più e incontrare altre idee.
Credo che oggi, più che mai, sia necessario distinguere fra l’identità ebraica – ricchissima, molteplice, viva – e le scelte ideologiche e politiche dello Stato di Israele. È una distinzione che serve a difendere i valori della democrazia e non a demolire memorie.
Saluto i miei amici ebrei dicendo loro Shalom (שָׁלוֹם) e confidando che Shalom (שָׁלוֹם) e Emet (אֱמֶת) – pace e verità – siano luce del loro cammino nel mondo
SP
Focus
Israele: uno Stato ideocratico tra fondazione sacra e paura della fine
Israele non è nato come uno Stato qualunque. La sua fondazione nel 1948 rappresenta la realizzazione concreta di un’ideologia salvifica e identitaria, il Sionismo, che unisce elementi storici, religiosi e mitologici. A differenza delle democrazie occidentali moderne, fondate su principi di cittadinanza, Israele nasce come Stato del popolo ebraico, ovunque esso si trovi nel mondo, e ciò lo rende di fatto, l’unico esempio contemporaneo di ideocrazia politica: un sistema dove l’ideologia precede e plasma l’intero impianto statale.
Nel 1950, la Legge del Ritorno garantisce automaticamente la cittadinanza a qualsiasi ebreo che voglia emigrare in Israele, stabilendo una distinzione giuridica e culturale netta tra “ebrei” e “non ebrei” all’interno dello Stato.
Questa logica si è rafforzata nel tempo, fino ad arrivare alla controversa “Legge Fondamentale sulla Nazione” del 2018, che definisce Israele come “lo Stato-nazione del popolo ebraico”, riservando solo a quest’ultimo il diritto all’autodeterminazione e riconoscendo il ruolo privilegiato della religione e della lingua ebraica.
Questa struttura giuridica ha implicazioni profonde: la democrazia israeliana non è neutrale ma condizionata dall’idea fondativa. I diritti sono garantiti, ma non sempre egualmente distribuiti. Le istituzioni funzionano, ma all’interno di un impianto che privilegia chi aderisce anche implicitamente alla narrativa sionista.
Accanto a questa architettura ideologica, esiste un aspetto psicologico spesso trascurato nelle analisi: la paura costante della fine di Israele. Dall’Olocausto al trauma della Guerra dello Yom Kippur nel 1973, fino alla percezione dell’accerchiamento da parte di nemici esterni, una parte significativa della società israeliana vive con la sensazione che la sopravvivenza del proprio Stato non sia mai garantita. Questa ansia esistenziale è diventata parte del DNA politico e culturale del Paese.
È anche per questo che ogni opposizione, interna o esterna, viene spesso vissuta come una minaccia assoluta. Non è solo una questione di sicurezza militare ma si tratta anche di legittimazione ontologica. Il nemico, che sia Hamas, un dissidente ebreo, un attivista palestinese o una risoluzione ONU, viene percepito come qualcosa da annientare, non da comprendere o negoziare.
Il conflitto con i Palestinesi, allora, non è solo territoriale o strategico ma è il teatro dove si gioca una battaglia tra visioni del mondo.
In questo contesto, Israele si presenta come un laboratorio avanzato di governance securitaria. Qui, la sicurezza non è una funzione dello Stato: è il suo linguaggio madre. L’infrastruttura del controllo è onnipresente:
- sorveglianza predittiva del territorio,
- monitoraggio digitale capillare,
- egemonia narrativa sui media e nel discorso internazionale,
- equivalenza sistemica tra dissenso e minaccia.
La forza di Israele, infatti, non risiede solo nella sua tecnologia militare o nei suoi servizi di intelligence, ma nella capacità di definire cosa è reale, cosa è legittimo, cosa è umano. In questo senso, controllare l’informazione è parte integrante del controllo del territorio.
Fondamentale in questa architettura ideocratica è il ruolo della memoria. Il trauma fondativo della Shoah è non solo riconosciuto, ma istituzionalizzato come principio morale dello Stato. Tuttavia, quella memoria, tragica e indiscutibile nella sua verità storica, è oggi anche uno strumento di legittimazione politica. Viene utilizzata per neutralizzare ogni critica, per delegittimare la sofferenza altrui, per giustificare atti che negano ad altri popoli — in primis quello palestinese — il diritto stesso al lutto e al racconto. La sofferenza diventa così gerarchica: esistono vittime assolute e vittime invisibili. Il dolore, da universale, diventa proprietà.
Capire questa dinamica — fatta di ideologia, trauma, identità e controllo — è essenziale per interpretare non solo la condotta israeliana, ma anche l’assordante silenzio dell’Occidente, spesso incapace di distinguere tra il legittimo diritto alla sicurezza e l’imposizione sistemica di un dominio senza alternativa.
Diritto, memoria e controllo
Il conflitto israelo-palestinese come paradigma del nuovo disordine globale
Il conflitto israelo-palestinese, nella sua forma attuale, ha oltrepassato i confini del Medio Oriente.
Con 50.000 vittime palestinesi registrate solo nell’ultima escalation, ciò che accade oggi a Gaza e in Cisgiordania non può essere considerato un semplice scontro regionale.
È diventato il simbolo di una nuova epoca storica, in cui la guerra non è più un’eccezione, ma è regola accettata fino a erigersi a sistema di governo.
Non si tratta di un conflitto come gli altri. A Gaza si consuma un progetto sistematico di dissoluzione: delle infrastrutture civili, delle famiglie, della coesione sociale, del diritto stesso all’esistenza. La distinzione tra civile e combattente è stata cancellata; le leggi internazionali ignorate o stravolte; le risoluzioni delle Nazioni Unite, che dovrebbero rappresentare un argine invalicabile, svuotate di efficacia.
La svolta storica: 1995, l’anno del silenzio
Per capire questa deriva, è necessario tornare al 1995. L’assassinio del primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, artefice degli Accordi di Oslo, ha segnato la fine concreta del processo di pace. La sua morte ha permesso la rapida ascesa delle forze nazionaliste e religiose, marginalizzando le compagini laburiste e democratiche che progressivamente si sono sfibrate e estinte. Da allora, Israele ha intrapreso una profonda trasformazione ideologica e politica, orientata verso una visione ideocratica: un’identità nazionale legata in modo indissolubile alla religione, al territorio e alla sicurezza. La democrazia si è conservata, ma sempre più svuotata di universalismo.
Un Medio Oriente riconfigurato: alleanze senza giustizia
Altro elemento cruciale per comprendere lo spostamento di alcuni equilibri è stata la guerra civile siriana, iniziata nel 2011, che ha profondamente rimescolato gli assetti del Medio Oriente. In quel frangente, Hamas, fino ad allora legato a un’impostazione prevalentemente fondamentalista, si avvicinò all’asse Siria-Iran, configurando un inedito avvicinamento tra le due principali anime dell’Islam: Sunniti e Sciiti.
Tuttavia, quell’embrionale convergenza, che lasciava intravedere un possibile riequilibrio in senso multipolare, fu presto assorbita da nuove direttrici geopolitiche.
Gli Accordi di Abramo, siglati a partire dal 2020 tra Israele e alcuni Stati arabi, hanno rappresentato una svolta tanto storica quanto ambigua. Formalizzando relazioni diplomatiche e commerciali senza affrontare la questione palestinese, questi accordi hanno di fatto sancito una “normalizzazione selettiva”: la pace si firma altrove ma sulla pelle di altri.
Anziché ridurre le tensioni, questo processo ha accentuato la marginalizzazione palestinese, trasformando la causa storica di un intero popolo in un elemento negoziabile o peggio, eludibile. È in questo quadro di equilibri svuotati, accordi funzionali e alleanze d’interesse che va letto il recente avvicinamento tra gli Stati Uniti e il nuovo regime siriano e il suo leader Ahmed al-Sharaa[1], a quanto pare ispirato da un “sorprendente pragmatismo”.
Si tratta di un passaggio epocale da non sottovalutare e che segna un cambiamento radicale di postura. Non siamo più nel paradigma ideologico e anti-imperialista degli Assad, ma in una nuova fase in cui la Siria guarda anche agli Stati Uniti come possibile partner per uscire dal proprio isolamento. Questo cambio di rotta, se confermato, rappresenta non solo la fine del vecchio blocco resistenziale, ma anche un ulteriore isolamento politico per i Palestinesi. Senza la Siria come riferimento, la loro marginalizzazione nel contesto regionale si acuisce. Gli ultimi alleati storici si ricollocano e lo fanno al di fuori della loro causa.
La guerra infinita
L’attuale conflitto a Gaza è il più lungo e distruttivo degli ultimi decenni. Non è una parentesi, ma un nuovo standard. Gli attacchi non colpiscono più solo obiettivi militari, ma l’intero ecosistema sociale palestinese. Gli ospedali, le scuole, l’acqua, la comunicazione. Gaza, per molti aspetti, è già stata disintegrata.
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[1] Ahmed al-Sharaa, noto in precedenza come Abu Mohammed al-Julani, è divenuto presidente della Siria nel gennaio 2025, guidando un governo di transizione nato dalla vittoria militare del gruppo Hayat Tahrir al-Sham (HTS) contro il regime di Assad. Il nuovo esecutivo ha sospeso la costituzione del 2012, sciolto il partito Baath e avviato riforme per reintegrarsi nella comunità internazionale. Tra le iniziative di apertura vi sono i colloqui con gli Stati Uniti e la disponibilità espressa da al-Sharaa a valutare la normalizzazione con Israele, segnando un netto allontanamento dalla tradizionale postura filopalestinese della Siria.
Il silenzio e l’indifferenza:
l’Occidente davanti a Gaza
C’è un silenzio che pesa più delle bombe. È il silenzio dell’Occidente democratico, e soprattutto di un’Europa che appare ormai svuotata della sua vocazione storica: incapace di pensare, di parlare, di scegliere. Un continente che un tempo ha partorito l’idea stessa di diritto universale, di dignità umana, di autodeterminazione dei popoli, oggi si rifugia in una neutralità che è figlia delle egemonie tecnocratiche che l’hanno annichilita. Le irrilevanti classi politiche del nostro continente non manifestano altro che comunicati vaghi, ambiguità linguistiche e sottomissione strategica.
E tace mentre a Gaza si consuma una delle più vaste campagne di distruzione contro una popolazione civile nel mondo contemporaneo. E nel suo silenzio rivela una verità scomoda: che i diritti umani non sono più universali, ma geopolitici. Che la pietà, la solidarietà, la giustizia si attivano solo quando è strategicamente conveniente.
In questo senso, il paragone con la guerra in Ucraina è rivelatore ma non per somiglianza bensì per contrasto. All’invasione russa è seguita una mobilitazione istantanea e massiccia che ha prodotto sanzioni, aiuti militari, aperture diplomatiche. Quel tipo di reazione, così rapido e unanime, resta del tutto assente davanti al massacro palestinese. Perché?
Le due guerre nascono da matrici storiche, morali e strategiche profondamente diverse. Ma è proprio questa differenza a mettere a nudo l’ipocrisia.
In Ucraina lo scenario, soprattutto iniziale, è quello di una guerra per procura alimentata dagli Stati Uniti con il silenzio-assenso europeo. È un conflitto in cui si più simulare la difesa di un confine europeo, di un’identità “familiare”.
In Palestina si assiste al massimo a una “crisi umanitaria”, mai a una resistenza. Il primo conflitto è narrato come scontro tra civiltà e invasore, il secondo come una “complicazione etnica”. In un caso c’è empatia, nell’altro c’è distanza. In un caso protagonisti, nell’altro osservatori.
Gaza è diventata, oggi, il vero specchio di ciò che resta dell’Occidente: un blocco che ha smarrito la sua anima democratica, che non sa più riconoscere la sofferenza se non quando gli somiglia e che ha ceduto il pensiero alla burocrazia della potenza.
L’improvvisa apertura politica tra Donald Trump e il nuovo regime siriano — un tempo nemico giurato degli Stati Uniti — rappresenta un segnale che va ben oltre la diplomazia di superficie. È l’indizio che qualcosa si sta ristrutturando in profondità.
La normalizzazione dei rapporti tra Washington e Damasco, dopo un decennio di guerra e demonizzazione, segna un passaggio strategico cruciale: la conferma che il Medio Oriente sta per tornare al centro di uno scontro di potenza globale. Non più come campo marginale di guerre “per procura”, ma come laboratorio definitivo del nuovo ordine mondiale. Un ordine in cui gli alleati si ridefiniscono non più in base ai diritti o ai valori, ma alle opportunità tattiche.
È in questo quadro che la guerra a Gaza va letta. Non come un’eccezione ma come un epicentro. La violenza sistemica contro il popolo palestinese non è solo il prodotto dell’intransigenza israeliana ma è anche la cartina di tornasole di un mondo in cui la violenza è tornata ad essere moneta diplomatica accettata. L’apertura verso la Siria, con tutti i suoi paradossi storici e morali, ne è la conferma indiretta.
E proprio per questo, oggi, parlare di Gaza non è più solo un dovere morale. È un atto politico, perché significa riconoscere che qualcosa è cambiato. E che quel cambiamento non riguarda soltanto il Medio Oriente, ma l’idea stessa di futuro che l’umanità sta costruendo.
Palestina: epicentro del futuro
La Palestina è una causa umanitaria, un conflitto irrisolto e una tragedia geopolitica. Ma è anche qualcosa in più di tutto questo: è il paradigma di un mondo che si rassegna alla catastrofe come forma ordinaria del potere. A Gaza si osserva in tempo reale il collasso di tutte le garanzie morali, giuridiche e civili che l’umanità aveva faticosamente costruito dopo il Novecento.
La Palestina è oggi il laboratorio visibile di una mutazione globale in cui la fine del diritto internazionale diventa addirittura un vincolo. Allo stesso modo vediamo cancellato il confine tra guerra e amministrazione e applicato l’uso sistemico della devastazione come linguaggio politico.
Siamo, come disse Papa Francesco, nella “Terza Guerra Mondiale a pezzi” e in quei territori più che in altri ci viene offerta un’anticipazione di uno scenario che potrebbe allargarsi sempre di più. Sbaglieremmo a considerarla una periferia. La Palestina è un teatro centrale che descrive un orizzonte.
Gaza è il test definitivo di cosa il mondo è disposto ad accettare. Se la cancellazione di un popolo può avvenire nella piena luce dei media globali e nell’assenso implicito delle democrazie avanzate, allora tutto è possibile. Anche altrove. Anche ovunque.
Difendere la Palestina, oggi, significa difendere l’idea stessa che il futuro possa ancora appartenere all’umanità.
Stefano Pierpaoli
14 maggio 2025
L’ideocrazia israeliana: definizione, implicazioni, confronti
◊ Radici storiche e continuità del “conflitto permanente”
- Dal Mandato Britannico al 1948: la costituzione dello Stato d’Israele e il Nakba palestinese inaugurano non solo una frattura territoriale, ma un paradigma di “guerra fondativa” che plasma identità nazionali antagoniste.
- La guerra di sei giorni (1967) e le occupazioni successive: l’annessione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est segna il passaggio dalla guerra interstate alla guerra di occupazione, con regimi militari che istituzionalizzano la segregazione.
- Oslo e il fallimento della pace: le intese di inizio anni Novanta trasformano temporaneamente il conflitto in “questione di burocrazia” (coordinatori di checkpoint, mini-governance palestinese), ma non disinnescano la logica del controllo.
◊ La “distruzione sistematica” come strategia politica
- Il dato attuale di 60.000 morti palestinesi non è un mero «effetto collaterale», bensì il culmine di un processo di “spoliazione territoriale e demografica”:
- Demolizioni di case, restrizioni di movimento, reinsediamenti di colonie.
- Uso dei droni e delle tecnologie di sorveglianza per colpire cellule militanti, ma con impatti civili in scala industriale.
- La narrazione della “sicurezza”, veicolata incessantemente dai media israeliani e internazionali, legittima sul piano simbolico operazioni che in altri contesti verrebbero condannate come crimini di guerra.
◊ La crisi del diritto internazionale
- Inazione e doppio standard: l’ONU e le principali potenze occidentali evitano sanzioni vincolanti, mentre applicano criteri di ferrea legalità contro attori non allineati (si pensi alle sanzioni contro la Siria o l’Iran).
- Precedente per conflitti futuri: se il diritto internazionale diventa uno strumento flessibile in mano ai vincitori, si spalancano scenari di conquista simili a quelli mediorientali anche altrove.
◊ Israele come “modello securitario globale”
- Controllo digitale e biometrico: checkpoint intelligenti, tracciamento dei percorsi, gestione dei permessi. Un prototipo di smart‑occupation che attinge a modelli di “data‑driven warfare”.
- Monopolio narrativo: dallo storytelling del trauma (Shoah) al framing delle “minacce terroristiche”, ogni dissenso interno o esterno viene delegittimato come “ostile alla pace”.
- Memoria trasformata in arma: la reverenza assoluta per il passato diventa barriera alla riconciliazione, legittimando una politica di punizione collettiva.
◊ L’ideocrazia israeliana: l’unicità di uno Stato‑religione
- Definizione di ideocrazia: sistema di governo in cui l’autorità politica è legittimata e organizzata secondo principi religiosi o ideologici, piuttosto che secondo un contratto sociale laico.
- Caso unico: Israele, fondato nel 1948 come Stato ebraico, è l’unico esempio storico di un regime in cui la legge civile e la prassi politica sono profondamente intrecciate con la Halakhah (legge religiosa ebraica).
- Strutture istituzionali: il Gran Rabbinato, la legge sul ritorno, i tribunali religiosi per matrimoni e divorzi, e il ruolo dei partiti religiosi nel governo rappresentano un’articolazione permanente di norme sacrali nel diritto positivo.
- Conseguenze geopolitiche: l’ideocrazia israeliana alimenta sia la coesione nazionale sia la discriminazione interna (status giuridico differenziato per cittadini e residenti palestinesi), contribuendo al carattere esclusivo della “spoliazione sistematica”.
◊ Implicazioni teoriche per il nuovo ordine mondiale
- Guerra come governance: conferma l’idea che il conflitto sia diventato uno strumento ordinario di amministrazione politica.
- Fine delle “alleanze morali”: Paesi occidentali continuano a finanziare e armare un attore che violenta sistematicamente i diritti umani, smantellando ogni rigore etico‑ideologico.
- Centralità dell’etica individuale: la resistenza diventa soprattutto una lotta di coscienza, un appello a un’opinione pubblica globale ormai anestetizzata.
◊ Le radici ideologiche del Religious Zionism
- Movimento Mizrachi (1902): prima espressione ufficiale del “religious Zionism”, fondato da Yehuda Leib Maimon e altri, che rivendicavano un ritorno in Terra d’Israele fondato sui precetti biblici oltre che nazionali.
- Rav Kook e l’ortodossia messianica: Abraham Isaac Kook (1865–1935) teorizza un sionismo sacralizzato, in cui il ritorno alla Terra è tappa di un disegno divino.
- Dall’ideologia alla politica: negli anni ’70 e ’80 si affermano partiti e movimenti (Mafdal, Gush Emunim) che traducono le prospettive religiose in piattaforme politiche per la colonizzazione della Cisgiordania.
◊ Confronto con altri Stati teocratici
- Iran post‑1979: teocrazia esplicita con guida suprema clericale e legge islamica (sharia) posta a fondamento di tutte le istituzioni. A differenza di Israele, la dimensione religiosa è totalizzante e sostituisce la democrazia parlamentare.
- Arabia Saudita: monarchia assoluta basata sulla sharī‘a wahhabita, nessuna rappresentanza parlamentare, ruolo centrale delle autorità religiose nel diritto penale. Diversamente da Israele, non esiste sistema elettivo né tribunali civili indipendenti.
- Pakistan: repubblica islamica con costituzione che dichiara l’Islam religione di Stato e tribunali islamici paralleli. Tuttavia coesistono istituzioni laiche e un sistema giudiziario misto.
- Unicità israeliana: mantiene una democrazia parlamentare, pur riservando a norme religiose competenze su questioni personali, e un pluralismo confessionale che altrove è inesistente.
◊ Conseguenze interne ed esterne del modello ideocratico
- Interno: sistema educativo duale (statale ed ebraico‑religioso), welfare differenziato tra ultra‑ortodossi e laici, tensioni sul ruolo delle donne e sulla laicità dello Stato.
- Esterno: uso diplomatico del sionismo religioso per mobilitare le comunità della diaspora, export di tecnologie securitarie e collaborazioni con governi in cerca di modelli di “counter‑terrorism”.
Il nuovo ordine mondiale
Conflitti, crisi e strategie: una visione sistemica sul mondo che cambia
Tensioni geopolitiche, economia bellica, disinformazione e strategie del potere.
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