L’egemonia del pessimo

L’estetica della volgarità forma le nostre menti e corrode la dignità.
Con il nostro consenso

“Il male comincia quando si preferisce il riso allo scandalo.”
Georges Bernanos

Le chat di gruppo, luoghi apparentemente informali e privati, sono oggi ambienti strutturali di formazione identitaria. Il loro linguaggio sintetico, fatto di emoticon, abbreviazioni e reazioni automatiche, sostituisce la complessità dell’interazione con un codice affettivo standardizzato. In questo regime di comunicazione immediata, la profondità emotiva è sostituita da segnali prestabiliti, che semplificano l’espressione per renderla compatibile con logiche algoritmiche di profilazione.

La volgarità in questi spazi non è più trasgressione ma linguaggio funzionale. Nella sintesi si nasconde, ma nemmeno tanto, un ambiente di sottintesi e di prevaricazioni che determinano un clima volgare per sua stessa natura.

Non si tratta solo di stile o cattivo gusto. L’immediatezza digitale produce un regime cognitivo che premia la reattività e penalizza la riflessione. Il linguaggio volgare si afferma perché è immediatamente comprensibile, emotivamente efficace, socialmente inclusivo: non richiede competenze culturali specifiche ma solo la condivisione di codici istintuali. Le nuove forme linguistiche – dagli anglicismi performativi come “triggerare” o “cringe” ai neologismi ibridi – non emergono per povertà lessicale ma come adattamenti a un ecosistema di comunicazione dove l’attenzione è frammentata e la visibilità è la posta in gioco.

Questa democratizzazione del volgare produce un effetto paradossale: mentre apparentemente abbassa le barriere comunicative, di fatto impone nuove forme di conformità. Chi non aderisce al registro comune viene percepito come snob, distante, inautentico. La volgarità da elemento di esclusione si trasforma in strumento di inclusione, creando comunità fondate sulla condivisione di codici espressivi elementari piuttosto che su progetti culturali complessi.

La volgarità come dispositivo

Oggi la volgarità non ha più bisogno di travestimenti trasgressivi: è divenuta ambiente simbolico.
Si manifesta nei media, nei linguaggi politici, nei legami affettivi, nei meccanismi di riconoscimento sociale.
La sua forza non risiede nello scandalo ma nella normalizzazione.
Ha perso i tratti dell’eccezione per diventare protocollo operativo: un insieme di codici espressivi che rendono la comunicazione funzionale all’infrastruttura digitale.

La sua efficacia sistemica risiede nella capacità di disinnescare il conflitto culturale: dissolve il pudore, ridicolizza la complessità, esclude la mediazione. Non è una semplice estetica del brutto, ma una pedagogia implicita che orienta comportamenti e costruisce soggettività attraverso la semplificazione, la spettacolarizzazione e l’intimità mercificata.

Pedagogia dell’abbrutimento

L’intrattenimento continua a distrarre ma ha aggiunto una funzione più invasiva: ora ci addestra. Non si limita a offrire sollievo ma forma comportamenti, plasma desideri, stabilisce i confini del dicibile. La volgarità che vi regna non è un eccesso, è una regia. Si ride per contratto, si applaude a comando, si esulta per l’umiliazione altrui. I corpi vengono esposti, i sentimenti monetizzati, l’intimità trasformata in contenuto. Reality show, podcast trash, serie ipersessualizzate, talk urlati: tutti insegnano lo stesso alfabeto emotivo elementare, fatto di istinti, reazioni, slogan, offese. Nessuna elaborazione, solo performance. Nessuna empatia, solo consumo.

Ma la vera brutalità è linguistica. La parola perde peso, grazia, responsabilità. La battuta sporca diventa intelligenza, l’insulto si fa verità, la parolaccia è “spontaneità”. Ogni tono è urlato, ogni pensiero è abbreviato, ogni opinione è gridata come fosse un atto di coraggio. Il sarcasmo rozzo è l’unica forma ammessa di argomentazione.
Così si produce un’identità collettiva costruita sull’eccitazione costante, sull’emotività incontrollata, sull’infantilismo del giudizio. Si parla per aggredire, si ascolta per reagire.
La volgarità è diventata il codice comune perché non richiede cultura, ma solo reazione.

In questo paesaggio degradato, l’ignoranza è celebrata come autenticità, la rabbia come sincerità, la maleducazione come prova di carattere. L’educazione viene ridicolizzata come ipocrisia, la misura come debolezza, il pudore come censura. Chi rifiuta di partecipare al gioco è accusato di snobismo, elitismo, moralismo.
È così che la volgarità conquista il suo spazio politico: escludendo ogni profondità, rendendo sospetta ogni forma di decenza. Il male, oggi, passa per le vie semplici: è l’eccesso che si maschera da verità, è la sporcizia che finge autenticità.

Sistemi di riconoscimento e algoritmi dell’esposizione

La comunicazione visiva quotidiana – selfie, dirette, video – si struttura secondo una logica performativa che dissolve il confine tra pubblico e privato. Famiglie in vacanza che non dialogano ma si filmano, adolescenti che imitano posture da gangster o mettono in scena atti di violenza: non si tratta di devianze individuali, ma di pattern comportamentali legati alla logica della rappresentazione continua.

Il conflitto stesso viene estetizzato: le liti in treno o al supermercato non sono più eventi critici ma scenari narrativi attesi. L’economia dell’attenzione premia la rottura della norma, rendendo la provocazione un canale privilegiato di visibilità.

In TV il peggio è servito in prima serata, confezionato come “opinione”. Reality grotteschi, risse orchestrate, opinionisti che riducono tragedie a gossip. Si fa audience sulla morte, sul femminicidio, sulle malattie mentali, mentre si grida che “non si può più dire niente”. La volgarità dilaga proprio perché è diventata il linguaggio che unisce. È democratica, inclusiva, virale. Piace perché ci assolve: ci dice che non serve essere migliori, basta essere visibili.

La volgarità, oggi, non è più un incidente di percorso. È una scelta quotidiana. È il filtro che mettiamo alle cose per renderle più vendibili, più scandalose, più redditizie. Ciò che un tempo era vergogna ora è strategia. E noi ne siamo complici. Non c’è ironia che salvi chi ride sopra l’abisso.

Educare al brutto

Le dinamiche familiari e scolastiche non sono immuni da questo processo. L’educazione formale entra in crisi quando i codici valoriali vengono sostituiti da modelli che premiano l’aggressività, la viralità e la messa in scena del sé. La volgarità diventa così un capitale relazionale: chi alza la voce comanda, chi umilia ottiene consenso.

Non si tratta di un collasso morale, ma di un riassetto sistemico. I meccanismi sanzionatori tradizionali – vergogna, esclusione, correzione – sono stati sostituiti dalla viralità come parametro di successo. La scomparsa dell’autorità non è un fallimento educativo, ma una riconfigurazione del potere relazionale basata sulla performatività.

Nuove soglie del dicibile

L’estetica del brutto non è solo tollerata: è promossa. Si legittima la monetizzazione del lutto, la spettacolarizzazione del trauma, la pubblicizzazione dell’intimità. Ogni elemento dell’esperienza privata può essere convertito in contenuto: la morte diventa post, la malattia un trend, la memoria un reel.

In questo contesto, l’empatia viene riformulata come algoritmo: il like sostituisce la partecipazione, l’engagement sostituisce l’elaborazione. Non è più l’evento ad avere senso, ma il modo in cui può essere capitalizzato.

Verso una genealogia della volgarità

La volgarità contemporanea non è un incidente culturale, né una regressione morale: è la forma egemonica assunta dalla comunicazione in un sistema orientato alla visibilità, alla reattività e alla semplificazione. È un sintomo di una trasformazione profonda dei codici di riconoscimento sociale.

Più che condannare, è necessario comprendere come si è affermata. Quali dispositivi l’hanno resa dominante? Quali economie la sostengono? Quali tecnologie la riproducono? Offrire risposte a queste domande significa dotarsi di strumenti per leggere il presente senza nostalgia né moralismo, ma con lucidità critica.

Stefano Pierpaoli
12 maggio 2025

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Dall’abbaglio alla gentilezza
Dissertazione sul ritorno all’umano illuminato

Cartografia del Male Contemporaneo

Il male contemporaneo non si presenta più con i tratti riconoscibili dell’orrore manifesto. È silenzioso, diffuso, integrato. Non ha bisogno di gridare: gli basta aderire, insinuarsi nei discorsi, nei gesti, nei dispositivi sociali e culturali…

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Il male contemporaneo non ha più i tratti riconoscibili dell’orrore manifesto. È silenzioso, diffuso, perfettamente integrato. Non ha bisogno di gridare: gli basta insinuarsi nei discorsi, nei gesti, nei dispositivi sociali e culturali.
Questa trilogia nasce dal tentativo di mappare alcune delle sue forme più attuali e insidiose, spesso trascurate proprio perché normalizzate.

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L’egemonia del pessimo riflette infine sul dominio della mediocrità come cifra del nostro tempo: una mediocrità che non solo spegne l’eccellenza, ma sospetta di ogni tentativo di elevarsi.

Tre sguardi, un unico intento: riconoscere le maschere del male quando si mimetizza nell’ordinario.
Perché troppo spesso il male non si impone, si lascia fare.

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