L’Italia nel Fronte Invisibile

Cronaca di una sovranità parziale nel mondo nella guerra permanente

Con il cappello in mano

Giorgia Meloni e l’alleato unico americano. In caso di guerra e non solo

L’Italia fluttua in un’ipersfera di contraddizioni e silenzi. Nel mosaico sempre più frammentato della geopolitica globale, il nostro paese occupa una posizione vincolata a un’alleanza imprescindibile, soprattutto in caso di escalation bellica.
Siamo uno dei paesi più “occupati” d’Europa dal punto di vista operativo. Da Aviano a Sigonella, da Camp Darby a Gaeta, l’infrastruttura logistica e militare americana presente sul nostro territorio è tale da renderci una piattaforma insostituibile in qualsiasi scenario di guerra nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e oltre. 

L’Italia non può più dirsi neutrale: già oggi, nei fatti, è parte attiva di ogni conflitto asimmetrico, ibrido o convenzionale che coinvolga il fronte euro-atlantico.
In un mondo che tende verso una “terza guerra mondiale frammentata”, come analizzato in questo testo, l’Italia rischia di diventare una retrovia cruciale. Non solo per la sua utilità logistica ma per la sua debolezza politica e la sua subalternità strutturale. Le guerre moderne non hanno bisogno di dichiarazioni formali. Bastano le basi, i rifornimenti, i cieli aperti, la complicità silenziosa.

A questo dobbiamo aggiungere una crisi finanziaria permanente, con un debito pubblico superiore al 140% del PIL, che ci rende vulnerabili e ricattabili. Siamo dipendenti dai fondi europei del PNRR, su cui non diamo garanzie di attuazione. In questo contesto, Giorgia Meloni esaspera i suoi “atteggiamenti bulleschi” nei confronti dei partner europei e concima con il letame politico della sua porno-maggioranza il rapporto con Washington.
L’appoggio statunitense diventa così una “garanzia geopolitica” in cambio di fedeltà diplomatica, acquisti militari, adesione a strategie energetiche e tecnologiche definite altrove. Questo patto non scritto somiglia sempre più a una forma di protettorato: l’Italia cede porzioni della propria sovranità (Caso Starlink) in cambio di stabilità finanziaria e legittimazione internazionale.

L’Italia non sta scegliendo la guerra ma sta scegliendo di non avere strumenti per evitarla. Le recenti (non)prese di posizione sul conflitto israelo-palestinese, l’appiattimento sulla linea NATO in Ucraina, l’acquiescenza di fronte alle minacce economiche americane verso l’Europa sono tutti tasselli di un puzzle più grande: quello di un Paese che ha già rinunciato a contare, per provare a sopravvivere inchinandosi allo Zio Sam.

Ma quando a decidere sono sempre e solo gli altri, il prezzo più alto lo paga il popolo che non ha più voce.

Ed è proprio da questa condizione di sottomissione strategica, tra dipendenze esterne e sovranità ceduta, che l’Italia entra nel quadro più ampio di un disordine globale sempre meno controllabile e sempre più funzionale agli interessi delle grandi potenze.

Geopolitica del presente

La guerra in Ucraina, la crisi di Gaza, l’iperattivismo delle potenze regionali e l’implosione dell’ordine internazionale rappresentano oggi un groviglio che non si può più affrontare con le categorie classiche della diplomazia o della strategia militare. Quello che emerge, al contrario, è un disordine organico: un caos funzionale, in cui l’instabilità viene alimentata deliberatamente, gestita a tratti, mai realmente risolta. Un disordine, insomma, che serve.

Serve per logorare i nemici attraverso guerre per procura. Serve per mantenere il controllo su alleati riluttanti. Serve anche per rimodellare gli equilibri interni in società sempre più fragili, dove la paura e il senso di minaccia diventano strumenti di governo. In questa logica, la guerra non è più l’estrema ratio della politica: è la politica stessa. Non è più lo strumento per negoziare la pace, ma la condizione strutturale per mantenere lo status quo o imporne uno nuovo.

La moltiplicazione dei fronti — Ucraina, Medio Oriente, Mar Rosso, Sahel, Caucaso — non è un effetto collaterale, ma il segno tangibile di un’escalation sistemica. Non c’è solo l’ombra della terza guerra mondiale. C’è il sospetto che una guerra mondiale a bassa intensità sia già in corso, diluita nello spazio e nel tempo, polverizzata in conflitti locali ma interconnessi, in cui le grandi potenze si sfiorano, si sfidano, si logorano — senza mai arrivare allo scontro diretto.

La guerra in Ucraina ne è l’esempio più evidente. La Russia ha intensificato l’uso di droni kamikaze, superando i 900 lanci in tre notti secondo Kiev. Gli attacchi sono sempre più distruttivi, ma anche ripetitivi, come se rispondessero a una logica di saturazione: non colpire obiettivi strategici, ma minare il morale e la resilienza sociale. L’Ucraina, da parte sua, rivendica l’abbattimento della maggior parte dei droni e attacchi speculari al territorio russo. A Belgorod, Mosca ha denunciato l’abbattimento di 56 droni in un solo giorno. Siamo nella fase della guerra meccanica, della guerra automatizzata e de-umanizzata.

Contemporaneamente, la Russia avanza nella regione di Sumy, conquistando sei villaggi e creando quella che definisce una “zona cuscinetto”. L’obiettivo è chiaro: non tanto una vittoria definitiva, quanto costruire condizioni favorevoli per un futuro negoziato da una posizione di forza. Da Mosca, Peskov e Zakharova parlano infatti di un “documento serio”, di una bozza in preparazione per un possibile accordo di pace. Ma è una pace condizionata, plasmata sugli interessi russi e in cui la mediazione internazionale è già oggetto di contesa: Mosca ha rifiutato il Vaticano come sede di negoziato, proponendo alternative più controllabili come Ginevra.

Scenari inquieti

L’Occidente, dal canto suo, non appare più unito. Il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha dichiarato che le armi fornite a Kiev potranno ora essere utilizzate contro il territorio russo: un’escalation ufficiale. Ha anche ammesso che la guerra potrebbe durare anni, poiché “si esaurirà per logoramento economico o militare”. È una visione cinica ma realistica: la pace non è più la priorità. La priorità è gestire il conflitto.

In parallelo, cresce la pressione internazionale. La Cina è accusata da Kiev di forniture indirette a Mosca (materiali dual-use, chimici, meccanici, componenti industriali). Pechino nega, ma il sospetto basta a dimostrare che la linea rossa tra guerra calda e guerra industriale è già stata superata. Intanto, gli Stati Uniti si muovono con cautela: Trump gioca ancora un doppio registro, corteggia Mosca ma accusa Putin di essere “impazzito”; Macron invita a imporre una scadenza a Mosca per il cessate il fuoco, ma non chiarisce chi dovrebbe farla rispettare. La diplomazia non è sparita: è diventata una seconda guerra, fatta di veti, delegittimazioni, ambiguità.

Nel frattempo, i teatri si moltiplicano. L’esercitazione navale russa nel Baltico, con oltre 20 navi e 3.000 soldati, segnala che Mosca vuole mantenere la pressione su più fronti, in vista di un possibile scontro più ampio. I venti di guerra non soffiano solo a est. In Medio Oriente, la crisi di Gaza ha riattivato tutte le faglie geopolitiche regionali. La destabilizzazione del Mar Rosso e la militarizzazione del Canale di Suez chiudono un anello strategico attorno all’Europa.

Pedine nel grande scacchiere:

Italia e Israele nell’era del disordine

Ed è qui che torna centrale l’Italia. Per motivi geografici e geopolitici, l’Italia rappresenta oggi un potenziale avamposto in un conflitto su larga scala. Non ha la forza militare autonoma per imporsi, ma ha le infrastrutture, le basi, la posizione. Proprio come Israele, che — pur logorato internamente e impantanato in una guerra suicida a Gaza — resta una pedina fondamentale nel grande scacchiere. Se Netanyahu ha rilanciato l’offensiva nonostante l’opposizione interna e internazionale, forse è anche perché sa che Israele sarà considerato indispensabile in caso di escalation globale. Una logica analoga potrebbe applicarsi all’Italia, sempre più esposta, sempre meno sovrana, ma strategicamente necessaria.

In questo scenario, anche le scelte più apparentemente insensate (come una guerra senza obiettivi chiari, come l’attacco a Rafah o la rigidità nei negoziati) trovano una loro razionalità. La razionalità del disordine. Dove ogni crisi è un’opportunità, ogni conflitto è una carta da giocare, ogni alleato è una pedina.

Se questa lettura è corretta, allora non siamo alle soglie della terza guerra mondiale. Siamo dentro qualcosa di peggio: un mondo in cui la guerra è diventata permanente, ma non dichiarata. Una guerra che non ha bisogno di un inizio, né di una fine. Solo di continuare.

Cisgiordania: Gaza in differita

A completare il quadro mediorientale c’è l’operazione Muro di Ferro lanciata da Israele in Cisgiordania nel gennaio 2024. Secondo il gruppo di ricerca Forensic Architecture, le tattiche adottate ricordano da vicino quelle usate nella Striscia di Gaza: distruzione sistematica di strade, infrastrutture, abitazioni e strutture sanitarie; militarizzazione dello spazio urbano; controllo territoriale attraverso la creazione di corridoi operativi per mezzi blindati e truppe. Non si tratta solo di incursioni, ma di un vero e proprio progetto di “controllo spaziale”, volto a rimodellare l’ambiente urbano dei campi profughi palestinesi come Jenin, Tulkarem, Nur Shams e Far’a.

Israele sembra voler rendere questi territori fisicamente e politicamente inabitabili. Secondo dichiarazioni di ministri come Smotrich e Katz, l’obiettivo è replicare in Cisgiordania la devastazione inflitta a Gaza: “Jenin e Tulkarem somiglieranno a Jabalia e Shujayea”, ha affermato Smotrich, aggiungendo che “saranno trasformate in rovine inabitabili e i loro abitanti saranno costretti a migrare”. La guerra, quindi, come strumento di ingegneria demografica, urbana e politica.

La dimensione logistica di queste operazioni è altrettanto significativa: l’allargamento forzato delle strade e la demolizione di edifici civili non rispondono a esigenze contingenti, ma a una strategia di lungo termine, mutuata dalla dottrina della controinsurrezione coloniale britannica. Come ha notato l’analista Hamze Attar, strade più larghe significano accesso facilitato per i mezzi blindati, ma anche minor protezione per la popolazione e maggiore esposizione dei combattenti palestinesi. Una logica di guerra preventiva e permanente, che trasforma i territori occupati in scenari di esercitazione continua.

Nel frattempo, decine di migliaia di palestinesi vengono nuovamente sfollati, molti dei quali discendenti diretti della Nakba. La distruzione di ospedali, ambulanze bloccate, centri medici trasformati in basi militari o luoghi di detenzione, tutto concorre a un messaggio implicito ma inequivocabile: nessun luogo è sicuro, nessun ritorno è possibile. Anche la Cisgiordania, come Gaza, viene così inscritta nella logica del disordine funzionale: destabilizzazione permanente, controllo senza sovranità, deterrenza attraverso il trauma.

Stefano Pierpaoli
28 maggio 2025

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