Oltre il caos, la coscienza

“Là dove brucia la cenere del mondo, bisogna imparare a custodire il fuoco.”
Ernst Bloch

L’usura dell’anima culturale

Nel percorso che abbiamo tracciato — dalla politica al lavoro, dall’ambiente alla sanità, passando per l’istruzione, l’intrattenimento, la giustizia — emerge una diagnosi univoca e inquietante: la crisi della cultura non è un sintomo, ma l’architettura stessa della decomposizione contemporanea.
Una regressione sistemica, programmata e accettata, che ha convertito la cultura da atto creativo a protocollo di consumo.

Per me, lavorare in questo settore da circa trent’anni è stata un’esperienza angosciante. Sentirmi parte di un motore principale e osservarne il progressivo arretramento al ruolo di zavorra. Partecipare a una miriade di riunioni istituzionali senza mai ascoltare una visione che coincidesse con il bene comune, che lavorasse per il progresso sociale.

Nominata all’infinito, la cultura è stata abusata, violentata, ridotta a feticcio da esibire per ottenere soldi, visibilità o potere. Nessun senso di responsabilità, nessuna etica civile, nessun amore per la comunità ha mai prevalso. Nessun impeto di ribellione per arrestare la disarticolazione dei valori che doveva essere sotto gli occhi di tutti.

Era così chiaro che una deriva così degenerante avrebbe coinvolto ogni settore della società. Non ci voleva un profeta per prevedere il declino della nostra civiltà. I segnali erano lì, evidenti, disponibili. Eppure, ogni volta che si è abbassata la soglia della qualità della vita, abbiamo preferito abbassare gli standard di misurazione di quella qualità.
Abbiamo modificato la metrica delle nostre esistenze, manipolato i criteri di valutazione.

Video blog di Aldo Grasso per Corriere.it

Abbiamo costruito una società iper-competitiva ma prigioniera di un paradosso: si può essere considerati “i migliori” anche senza sapere nulla del fare. Senza le conoscenze minime per affrontare la navigazione complessa della vita. Basta essere numeri e raggiungere numeri.
Coinvolgere, motivare, distribuire impulsi in una costante tempesta emotiva di stimoli e bisogni.

Siamo finiti in un labirinto paranoide di gesti sempre uguali, di traguardi ripetitivi, di frenesie profane. Le abbiamo chiamate energia, divertimento e relax, e abbiamo imparato a rappresentarle senza più riconoscerne l’essenza.

In questo reticolato di corti circuiti si è instaurata la cultura del 2000. Post-umana e invincibile. Pervasiva, violenta, priva di contraddittorio.
Ormai è lei a decidere cos’è bello. Impone le sue regole e insegna cosa deve piacerci. Ci fu un tempo in cui la nostra gioia era credibile perché apparteneva al reale. Anche noi eravamo credibili, perché viventi. Ora siamo solo rappresentazione, attori su un palco vuoto in un teatro dell’assurdo.

Il mondo dell’informazione: architettura del disastro

Proviamo a riflettere sulla qualità della politica e dell’esercizio dei nostri diritti fondamentali – lavoro, istruzione, sanità, giustizia – e, se ne abbiamo il coraggio, tracciamo un profilo della nostra società.
L’ambiente si salverà da solo. Noi sappiamo solo logorarlo. Ci sopravvivrà.

E tra tutte le degenerazioni, una ha giocato il ruolo più subdolo: quella dell’informazione.
Non è un argomento incluso tra le sette aree di questo lavoro, ma è ovunque. È il tessuto connettivo del caos.
Il giornalismo, nel suo complesso, è la somma dei mali culturali di cui stiamo morendo. E ne tira i fili ancor più della politica.

Quando ascoltiamo un lavoratore dei media, dobbiamo chiederci per conto di chi parla e chi lo paga. È il “follow the money” che ci può far capire a chi appartiene la vera voce.
Sono persone che non rispettano più alcun vincolo deontologico. Drogati di propaganda e affamati di audience, si prestano alla catastrofe. Hanno fatto del cinismo il loro linguaggio naturale.

Ha vinto il modello Dagospia: umiliante, sprezzante, pornografico nel senso più autentico del termine.
Lo stupro è accanto alla politica, che è accanto al culo della influencer, che sta subito prima della guerra, che arriva dopo il calciatore.
Tutti i quotidiani provano a obbedire a questo schema, così sulla homepage del Corriere troviamo le pagelle del Grande Fratello e i consigli per rimuovere la muffa.

È la resa dell’intelligenza. È l’annientamento dell’etica.
È il trionfo di un’informazione che non spiega più nulla, ma amplifica il vuoto.

L’intelligenza artificiale nel deserto del senso

Eravamo impreparati per il Web. E da quel momento abbiamo solo disimparato.
Ci presentiamo, completamente disarmati, all’appuntamento con la più straordinaria evoluzione tecnologica mai conosciuta.
Sui social abbiamo esposto il nostro privato, la nostra disperata solitudine.

Ora, in assenza di adeguati strumenti etici, conoscitivi e immaginativi, quello sfruttamento del sè potrebbe trasformarsi in una schiavitù ancora più disumanizzante.

La notizia che l’Intelligenza Artificiale abbia superato l’intelligenza umana — seppur ancora da decifrare nei suoi reali contorni — non è un traguardo scientifico. È uno spartiacque culturale. Segna l’inizio di un’era in cui il pensiero potrebbe non essere più il luogo del possibile, ma solo dell’ottimizzabile. Non ci stiamo confrontando con un salto di capacità, ma con una mutazione di senso: ciò che definiamo “intelligenza” rischia di essere riscritto dai criteri della performance, dell’adattamento e del calcolo.

Ora, in assenza di adeguati strumenti etici, conoscitivi e immaginativi, quello sfruttamento si trasformerà in una schiavitù ancora più disumana.

Non è un apparato neutro. È progettato per ottimizzare ciò che esiste e amplificarne l’efficienza. È la struttura perfetta per il potere predittivo, la sorveglianza capillare, la manipolazione emotiva.
Chi controlla l’algoritmo non controlla solo il dato: controlla la realtà percepita. E può produrne una più funzionale.

I soggetti privi di risorse critiche [leggi i dati] saranno i più colpiti. Non useranno l’IA per espandere la propria immaginazione, ma per normalizzarla ulteriormente.
Vivranno sotto la dittatura dell’estetica calcolabile, dove il “bello” è ciò che viene generato artificialmente. È già accaduto. Ma era solo un’anteprima.

I deficit di linguaggio hanno ristretto i margini dell’ambiguità creativa, della polisemia, dello scarto simbolico.
L’IA produrrà frasi plausibili ma senza eco. Il linguaggio diventerà previsione, statistica, eloquenza senz’anima. Lo spazio della contro-narrazione — ammesso che ancora esista — si restringerà fino a scomparire.

E quando il pensiero divergente non trova più fessure, l’umano si spegne.
Perderemo il confine tra sé e algoritmo, tra coscienza e output. Saremo rappresentazione, ma senza racconto. E allora, chi narrerà ciò che siamo?

Se non opporremo una cultura articolata, fertile, profonda, perderemo la funzione essenziale per considerarci ancora umani: la capacità di raccontare.
Il sistema genererà per noi, pre-comporrà, simulerà. Ci rinchiuderà in gabbie di ignoranza, pregiudizio, obbedienza.
In assenza di una ri-alfabetizzazione filosofica, l’esperienza sarà sostituita dalla simulazione. Il corpo, dimenticato. Il surrogato, normalizzato.

La cura del fuoco.
Ritrovare la misura dell’umano

Gran parte di questi processi sono già in atto. Ed è spaventoso che la politica non si sia mossa per costruire argini, per progettare soluzioni. Ancor più spaventoso se inserito in una logica di controllo.
Tutto ciò che semplifica, diventa necessario. E ciò che è necessario, non si contesta.
Così l’assuefazione diventa il più sofisticato strumento di dominio.

Viviamo in una società gravemente malata. Entro un anno potremmo ritrovarci proiettati in una dimensione estraniante, esponenziale, desertificata.

Abbiamo un’unica cura possibile: rigenerare una cultura etica, civica e morale, che ci consenta di tornare umani. Una cultura che non si lasci affascinare dalla potenza tecnica, ma interroghi la giustizia del fine. Una cultura che sappia dire di no a ciò che è possibile, se ciò che è possibile è disumano.
Dobbiamo porci e porre domande: a cosa sto contribuendo? Chi sto diventando? Che mondo sto costruendo?

È una sfida entusiasmante e non più rinviabile. In assenza di questa rivoluzione, non solo simbolica, nessun altro futuro sarà possibile.

Oltrepassare l’élite tossica e riaprire le ali

Per avviare questa ricomposizione, innanzitutto etica, serve ristabilire un’architettura fondata su riferimenti solidi. Punti fermi che sfuggano alla retorica delle buone azioni da palinsesto serale e che restituiscano profondità a un’idea, non contaminata, di bene comune.
Serve isolare un mondo marcio che continua a nutrire una narrazione tossica, fondata sempre sugli effetti che fanno audience e mai sulle cause che richiederebbero saggezza.
Un racconto distorto, spettacolare, ipnotico, che ha anestetizzato la nostra capacità di comprendere.

La classe dirigente è naufragata in una rappresentazione ridicola e volgare: un teatro di rubagalline e giullari.
Intorno a loro, volteggiano, come vestali da night club, opinionisti e conduttori dalla levatura intellettuale imbarazzante.

Scrivo mentre la Lilly nazionale ripete per il trentesimo giorno consecutivo le stesse invettive contro La Russa, ossessiva fino alla paranoia, paradigma di quella pochezza dialettica che domina il nostro circo mediatico (più evocativo e spregiativo di “salotto”). Tra l’altro parliamo tra uno scontro tra “titani” del nullismo.

Questa cricca di parolai, nei loro vari ruoli — politici, editoriali, pubblicitari — ha avvelenato i fiumi da cui una volta ci dissetavamo: fiumi di idee, visioni, prospettive. Per ripulire quelle acque, bisogna riportare al centro chi sa davvero pensare.

Intellettuali autentici, docenti illuminati, ricercatori competenti: sono loro a custodire lo sguardo lungo, la capacità di orientare le domande, la forza di ricostruire visioni che vadano oltre le prossime ventiquattro ore.
È questa la prima cura contro l’anestesia che ci è stata imposta.
Tornare a riconoscere e valorizzare figure autorevoli, capaci di guidare con lucidità e responsabilità. Dare loro spazio, dar loro voce, assicurarne l’indipendenza e poi proteggerla.

La nuova ecologia culturale e sociale di cui abbiamo bisogno nasce da lì: da chi sa leggere la storia e ne sa intuire le direzioni.
Solo un rinnovamento radicale delle classi dirigenti potrà estirpare il cancro mafioso della cooptazione e restituire spazio alla consapevolezza collettiva e alla rappresentanza democratica.
Persone libere dai rituali dell’affiliazione, capaci di promuovere una nuova idea di progresso, misurabile non solo in numeri, ma in benessere reale, relazionale, emotivo.

Parlo di laboratori di senso nelle scuole, nei territori, nei luoghi abbandonati dalla politica: spazi di riqualificazione dove si ricostruiscono comunità pensanti.

Parlo di reti riflessive, in grado di dare forma a economie solidali che non rinneghino l’innovazione, ma la umanizzino.

Non si tratta di esperienze retoriche e illusorie. Abbiamo innanzitutto urgenza di di rilanciare la facoltà del pensiero: la sua qualità, il suo ruolo. Ricordare che pensare non è un’appendice dell’agire, ma la sua condizione.
Queste esperienze, una volta moltiplicate, diventeranno incubatori di sviluppo e sapranno creare un gigantesco volano di crescita economica e di armonia sociale.

Siamo un paese fermo da almeno trent’anni. Un popolo burocratizzato nell’intimo, le cui eccellenze fuggono o si consumano ai margini.
Dare spazio alle intelligenze limpide significa rimettere in moto ciò che oggi sembra estinto: il desiderio, la dignità, la fiducia nel possibile.

Abbiamo interiorizzato il declino come destino. Ma è una decadenza decisa dall’alto, che ha bisogno di sudditi, non di cittadini.

Liberiamoci dai padroni, dai capi dell’apparato partitocratico, dai servi dell’informazione, e faremo un salto in avanti che, oggi, nemmeno riusciamo a immaginare.

Stefano Pierpaoli
10 giugno 2025

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