Politica

I RIFORMISTI DEL NULLA

Cronache di un'usurpazione semantica

Quando il termine “riformista” diventa un vestito elegante per nascondere la nudità politica di un’intera classe dirigente
Di fronte ai Bagni Misteriosi di Milano, il 24 ottobre 2025, si è consumato l’ennesimo capitolo della lunga agonia semantica della sinistra italiana. Una parata di notabili del Partito Democratico – Guerini, Picierno, Gori, Quartapelle, Delrio, Fassino – si è riunita sotto la bandiera del “riformismo”.
Revolution dei Beatles in sottofondo. L’ironia della storia, neanche troppo sottile: la canzone con cui Lennon prendeva in giro il radicalismo piccolo-borghese è diventata la colonna sonora di chi del riformismo ha fatto scempio lessicale.

Una questione di parole (e di Storia)

Cominciamo dall’abc, perché evidentemente serve. Il riformismo nasce all’interno del movimento socialista europeo alla fine del XIX secolo con una distinzione netta e non negoziabile: è la via democratica e graduale verso la società socialista, in opposizione alla via rivoluzionaria del comunismo.
Eduard Bernstein, il padre del riformismo moderno, dopo la morte di Engels nel 1895 elaborò la sua “revisione” del marxismo: non si trattava di abbandonare l’obiettivo finale – la società socialista – ma di raggiungerlo attraverso riforme graduali, democrazia parlamentare, estensione dei diritti. Il metodo cambiava, non la meta. Bernstein difendeva un socialismo fondato sull’uguaglianza delle possibilità, da costruire attraverso alleanze politiche e la continua correzione democratica del sistema post-capitalistico.

Il punto è cristallino e storicamente incontestabile: riformisti sono coloro che aspirano alla società socialista attraverso gli strumenti democratici. Non “moderati generici”. Non “centristi pragmatici”. Non “liberal con la coscienza pulita”. Socialisti. Punto.
Filippo Turati, Giacomo Matteotti, Giuseppe Saragat: questi erano i riformisti italiani. Potevano dirsi “riformisti perché rivoluzionari e rivoluzionari perché riformisti” perché il fine ultimo restava la trasformazione socialista della società, solo per via parlamentare invece che insurrezionale.

Il teatro dell’assurdo: quando nessuno sa più chi è

Ora, facciamo un salto a Milano, 24 ottobre 2025, Bagni Misteriosi del teatro Parenti. Cosa hanno rivendicato i nostri sedicenti “riformisti”? Crescita economica come “priorità delle priorità”. Spese belliche. “Chiarezza” sull’Ucraina e sul riarmo europeo. Nessuna ambiguità sulla NATO. Apertura ai “mondi produttivi”. Dialogo con Confindustria.
Dov’è il socialismo in tutto questo? Dov’è l’orizzonte di trasformazione della società capitalista?

Gori ha lamentato che l’Italia cresce dello 0,5% e che senza il PNRR sarebbe tecnicamente in recessione. Analisi perfetta per un convegno di Confindustria. Meno per chi si proclama erede di Turati e Matteotti. Il mantra ripetuto durante tutto il convegno: “Solo con la crescita si può aiutare chi ha bisogno”. Una frase che potrebbe firmare qualsiasi liberale da Adam Smith in poi. Ma il riformismo socialista non è questo.
Ma il bello viene ora. Contro chi si ergono questi paladini del riformismo-che-non-è? Contro Elly Schlein, naturalmente. La segretaria eletta con i voti delle primarie aperte, accusata di aver “occupato” il partito contro il volere degli iscritti storici. Bonaccini – ex riferimento della minoranza – viene ora rinnegato perché troppo “morbido” con Schlein, troppo appiattito sulla sua linea.

Ed ecco il capolavoro di un sistema politico alla deriva: una battaglia interna tra chi non sa definirsi e chi è stato nominato proprio per non cambiare nulla.

Schlein: il sintomo, non la cura

Perché è bene dirlo chiaramente: Elly Schlein non è la soluzione, è parte del problema. Anzi, è il sintomo più evidente di una classe dirigente che ha smarrito ogni bussola ideologica. Il suo profilo viene descritto come “più radicale, alcuni dicono populista”. Ma facciamo un passo indietro.
Schlein rappresenta un’operazione di marketing politico delle élite autoreferenziali del PD: nominata strumentalmente per intercettare un’esigenza di alterità, di proposta alternativa più vicina alle giovani generazioni, serve in realtà a trattenere un qualche consenso in attesa di tempi migliori. È la valvola di sfogo che impedisce la deflagrazione, il placebo che simula il cambiamento senza produrlo.
Non ha il profilo né lo spessore per rilanciare una vera proposta riformista di sinistra. La sua “radicalità” è tutta di facciata: qualche slogan sui diritti civili, qualche apertura al M5S di Conte, qualche ambiguità sulla politica estera. Zero sul piano della trasformazione economica e sociale. Le sue direzioni di partito vengono liquidate come “feste di compleanno” dove si evita accuratamente ogni discussione vera sui contenuti.

I “riformisti” di Milano l’hanno attaccata proprio su questo: “Bisogna affrontare le questioni che dividono, nessuna ambiguità sull’Ucraina”. “Siamo testardamente unitari, ma non con Conte e i Cinquestelle”. “Serve chiarezza anche dentro il PD”.
Il punto non è se abbiano ragione o torto su Conte. Il punto è che entrambe le fazioni – quella di Schlein e quella di Guerini – si muovono dentro lo stesso recinto: la gestione ordinaria del sistema capitalistico. Cambiano le sfumature, non la sostanza.

L’usurpazione del termine: un furto con destrezza

Nella storia italiana della fine del XIX secolo, il riformismo rappresentò la corrente più moderata del movimento socialista: i suoi sostenitori ritenevano possibile una collaborazione fra ceti proletari e borghesia nell’ambito parlamentare, per favorire un progressivo miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Ma sempre in vista della società socialista.
Quando Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi vennero espulsi dal PSI per l’appoggio alla guerra italo-turca, fondarono il Partito Socialista Riformista Italiano. Non il “Partito Liberale di Sinistra”. Non il “Partito della Crescita”. Partito Socialista Riformista. L’aggettivo “riformista” qualificava il metodo, non cancellava la natura socialista del progetto.

I promotori del convegno milanese hanno dichiarato: “No al riformismo esternalizzato”. Traduzione: vogliamo tenere per noi il brand “riformista”, impedire che altri se ne approprino (Renzi con “Casa Riformista”, Onorato con “Progetto Civico Italia”, perfino Ruffini con “Più Uno” che evoca l’Ulivo).
Ecco l’inghippo: hanno sequestrato un termine che non gli appartiene per marcare territorio all’interno di un partito che di socialista non ha più nemmeno l’ombra.
Le loro posizioni sono legittime: atlantismo forte, sostegno all’Ucraina, investimenti nella difesa, attenzione alle imprese, crescita come priorità. Benissimo. Ma chiamatele come volete: liberalismo sociale, atlantismo democratico, centrismo progressista, moderatismo competente.

Non “riformismo”. Perché il riformismo è un’altra cosa. È la via democratica al socialismo, non la gestione illuminata del capitalismo.

Due facce della stessa medaglia

Il quadro è impietoso: da una parte i “riformisti” senza riformismo, che vogliono un partito “meno barricadero, attento alle istanze di imprese e partite IVA”, che si ispira ai governi Draghi, Gentiloni e Renzi. Governi certamente rispettabili, ma definirli “riformisti” in senso socialista è una bestemmia storica.

Dall’altra una segretaria che esprime un’esigenza di cambiamento ma non ha né la visione né gli strumenti per realizzarlo, nominata da quelle stesse élite che finge di contrastare.

Guerini, da Milano, ha rassicurato tutti: “Non siamo qui per mettere in discussione la leadership di nessuno”. Che tenerezza. Una corrente che protesta ma non si ribella. Che critica ma non sfida. Che chiede “chiarezza” ma non vuole il congresso (che per statuto dovrebbe tenersi nel marzo 2027, ma potrebbe slittare per coincidenza con le politiche).
Picierno è stata la più esplicita: “I congressi si fanno per discutere della linea politica. Non abbiamo paura di confrontarci”. Ma poi, nella pratica, tutti rimandano. Tutti aspettano. Tutti gestiscono.

Il sistema si auto-perpetua

Qui sta il punto cruciale: Schlein e i “riformisti” non sono in conflitto reale. Sono complementari.
Schlein serve a intercettare il disagio, a dare voce (solo voce) alla rabbia sociale, a mantenere l’illusione che il PD possa ancora rappresentare un’alternativa. I “riformisti” servono a rassicurare l’establishment, a garantire che nulla cambierà davvero, che il PD resterà un partito “responsabile” e “affidabile”.
È un sistema perfetto di auto-perpetuazione. Le élite del partito hanno trovato l’equilibrio: una segretaria che fa rumore senza spostare nulla, una minoranza che protesta senza mai davvero ribellarsi.
Hanno persino scelto Revolution dei Beatles come colonna sonora del convegno. La canzone con cui Lennon nel 1968 prendeva le distanze dai movimenti radicali, definita dalla New Left Review “un grido lagnoso di paura piccolo-borghese”. Autoironia involontaria o inconsapevolezza storica? Propendo per la seconda, ma con un sospetto: forse è la perfetta metafora di una classe dirigente che ha paura del cambiamento reale quanto i Beatles del ’68.

Quale socialismo?

Bernstein venne accusato ai suoi tempi di “abbandonare lo scopo finale”. Rosa Luxemburg lo attaccò ferocemente. Kautsky lo criticò. Lenin lo definì un traditore. Ma Bernstein non abbandonò mai l’idea della società socialista. Cambiò il metodo per arrivarci, non la meta.
Diceva: “Il movimento è tutto, il fine è nulla” – ma intendeva che bisognava concentrarsi sulle lotte concrete, sui miglioramenti graduali, senza aspettare messianicamente la rivoluzione. Non intendeva che il fine – il socialismo – fosse irrilevante.

Ora: qualcuno ai Bagni Misteriosi di Milano ha pronunciato la parola “socialismo”? Qualcuno ha indicato un orizzonte di trasformazione del sistema economico? Qualcuno ha parlato di proprietà collettiva, di democrazia economica, di superamento del post-capitalismo?
No. Si è parlato di crescita. Di competitività. Di PIL. Di PNRR. Di imprese. Di alleanze atlantiche. Di spese militari.
Tutte cose legittime. Ma che c’entrano col riformismo socialista?

E Schlein? Lei cosa propone? Salario minimo (sacrosanto, ma è una misura redistributiva dentro il post-capitalismo, non una trasformazione del sistema). Diritti civili (importantissimi, ma compatibili con qualsiasi sistema economico). Alleanza con Conte (che di socialista non ha mai avuto nulla, nemmeno quando faceva il premier con la Lega).

Nessuno dei due schieramenti ha il coraggio – o forse la consapevolezza – di pronunciare la parola “socialismo”. Nemmeno come orizzonte lontano. Nemmeno come utopia regolativa. Nemmeno come riferimento storico a cui ispirarsi.

La provocazione necessaria

Allora, una proposta semplice a tutti voi – “riformisti”, schleiniani, bonacciniani, gentiloniani e a tutti i manager del nulla che popolano gli uffici del Nazareno: smettete di insultare la storia.

Chiamatevi per quello che siete:
Voi “riformisti” siete liberal-democratici. O socialdemocratici di destra. O centristi europeisti. O moderati atlantisti. Tutte definizioni oneste e dignitose che descrivono la vostra collocazione politica. Nessuno vi critica per questo. Ma lasciate in pace Bernstein, Turati e Matteotti.
Tu, Elly Schlein, sei una manager della sinistra di facciata. Un prodotto di marketing politico confezionato dalle stesse élite che fingi di contrastare. Non hai il profilo, lo spessore, la visione per rilanciare una vera proposta di trasformazione sociale. Sei lì per trattenere consenso e dare l’illusione del cambiamento, non per cambiare davvero il sistema. La tua “radicalità” è performativa: sta nel tono, nell’estetica, nei gesti simbolici. Non nella sostanza delle proposte economiche e sociali.

Ma entrambi – voi “riformisti” e tu Schlein – fate una cortesia alla politica italiana: lasciate in pace il termine “riformismo”.
Il riformismo vero è quello di chi aspira alla società socialista per via democratica. È quello di chi vuole trasformare radicalmente i rapporti di proprietà e produzione, ma senza insurrezione violenta. È quello di chi crede nella democrazia parlamentare come strumento per realizzare l’uguaglianza sostanziale, non solo formale.
Non è la vostra “crescita come priorità”. Non è la vostra “attenzione alle imprese”. Non è nemmeno il vostro “salario minimo senza prospettiva di trasformazione sistemica”.

Epilogo amarissimo

Al convegno “Crescere” dei riformisti hanno partecipato circa 500 persone. Hanno parlato economisti (Tito Boeri), sindacalisti (Daniela Fumarola della CISL), politici di lungo corso. Hanno detto cose anche sensate sulla sanità, sulla scuola, sul lavoro.
Ma il vero messaggio, quello non dichiarato, è un altro: nel PD nessuno sa più cosa voglia dire essere di sinistra.
Si combattono battaglie di posizionamento interno usando un lessico che hanno dimenticato come si traduca in politica vera. Schlein grida ma non trasforma. I “riformisti” propongono ma senza orizzonte. Entrambi si muovono dentro il recinto del possibile capitalistico, litigando su come amministrarlo meglio.

Il risultato? Un partito che non rappresenta più nessuna prospettiva di cambiamento reale. Un contenitore vuoto dove si agitano fantasmi ideologici privi di sostanza. Un simulacro di sinistra che serve solo a perpetuare lo status quo, dando l’illusione che esistano alternative diverse all’interno del sistema.
I veri riformisti – quelli che credevano nella via democratica al socialismo – si staranno rivoltando nelle loro tombe. Turati, che rifiutò sempre di entrare nei governi liberali pur collaborando con essi in Parlamento. Matteotti, che morì per mano fascista difendendo la democrazia come strumento di emancipazione socialista. Saragat, che ruppe con Nenni proprio per non sottomettere il socialismo riformista alla logica dei blocchi della guerra fredda.
Tutti loro avevano una cosa in comune: sapevano cosa volevano. Sapevano dove andare. Sapevano quale società costruire. Usavano il termine “riformista” con piena consapevolezza del suo significato storico e politico.

Revolution, cantavano i Beatles. Ma quale rivoluzione? E soprattutto, quale riforma?

Ai Bagni Misteriosi di Milano, il 24 ottobre 2025, queste domande sono rimaste senza risposta. Perché la verità è semplice e brutale: né Schlein né i suoi critici “riformisti” hanno la minima idea di cosa significhi aspirare a una società diversa.
Hanno solo l’ambizione di gestire meglio quella esistente. Schlein con più enfasi sui diritti civili e meno chiarezza sulla politica estera. Guerini e soci con più crescita e più NATO.
Ma nessuno dei due – nessuno – ha il coraggio di guardare oltre il capitalismo. Di immaginare un’alternativa sistemica. Di pronunciare quella parola che spaventa tutti: socialismo.
E questo, cari signori, non è riformismo. È amministrazione ordinaria travestita da battaglia ideologica. È il teatro dell’assurdo di una sinistra che non esiste più, sostituita da una gestione tecnocratica del consenso dove si litiga su tutto tranne che sull’essenziale: quale società vogliamo costruire.

Ai Bagni Misteriosi è andato in scena l’ultimo atto di una commedia tragica: quella di una classe dirigente che ha smarrito perfino il linguaggio per definire sé stessa e usa i termini della storia come maschere vuote per nascondere la propria afasia politica.
Ma la critica, per quanto necessaria, non basta. Demolire è facile. Più difficile è indicare un’alternativa concreta.
Questo è l’imperativo più urgente.

Stefano Pierpaoli
25 ottobre 2025

Socialismo e riformismo nell’era delle policrisi

Il contesto storico in cui opera la politica nel 2025 è radicalmente diverso da quello di Bernstein o Turati. Multiple crisi simultanee – climatica, geopolitica, economica, demografica, migratoria – si intrecciano creando quella che gli studiosi chiamano “policrisi”: non somma di crisi separate, ma sistema complesso dove ogni crisi amplifica le altre.
In questo scenario, cosa può significare oggi “riformismo socialista”?

La sfida della sostenibilità: Il capitalismo fossile ha prodotto un’emergenza climatica che minaccia la sopravvivenza stessa della civiltà umana. Un riformismo socialista contemporaneo non può eludere la questione: la transizione ecologica è compatibile con la logica del profitto? O richiede forme di proprietà collettiva, pianificazione democratica, controllo pubblico dei settori strategici (energia, trasporti, alimentazione)?

La sfida della democrazia economica: La finanziarizzazione e la concentrazione oligopolistica hanno svuotato la democrazia politica. Poche centinaia di corporation controllano gran parte dell’economia mondiale. I parlamenti ratificano decisioni prese altrove. Un riformismo socialista dovrebbe indicare forme concrete di democratizzazione dell’economia: partecipazione dei lavoratori, proprietà collettiva dei servizi essenziali, controllo pubblico della finanza.

La sfida geopolitica: Il ritorno della guerra in Europa, il riarmo generalizzato, la competizione USA-Cina pongono domande ineludibili. Un riformismo socialista può accettare la logica dei blocchi e della corsa agli armamenti? O deve indicare una “terza via” fondata sull’autonomia europea, il multilateralismo, il disarmo progressivo, gli investimenti nella cooperazione invece che nelle armi?

La sfida delle disuguaglianze: La concentrazione della ricchezza ha raggiunto livelli mai visti dal 1929. L’1% possiede più del 50% della ricchezza mondiale. La precarizzazione è strutturale. I “working poor” sono milioni. Un riformismo socialista deve indicare strumenti redistributivi radicali: tassazione progressiva reale della ricchezza, welfare universale, reddito minimo garantito, casa come diritto.

La sfida tecnologica: Intelligenza artificiale, automazione, piattaforme digitali stanno trasformando lavoro e società. Chi possiede e controlla queste tecnologie? Un riformismo socialista dovrebbe proporre: proprietà collettiva delle piattaforme, tassazione dei robot, riduzione dell’orario di lavoro, controllo democratico dell’innovazione tecnologica.

Bernstein diceva: “Il movimento è tutto, il fine è nulla”. Ma intendeva che bisognava concentrarsi sulle lotte concrete senza messianismi rivoluzionari. Non intendeva abbandonare l’idea di una società radicalmente diversa.
Il problema del PD – sia nella versione Schlein sia in quella dei “riformisti” milanesi – è che non ha più un “fine”. Non indica dove vuole andare. Si concentra sul “movimento” (amministrare, gestire, mediare) senza sapere verso quale società muoversi.
Un vero dibattito sul riformismo nel 2025 dovrebbe partire da qui: quale trasformazione strutturale del sistema capitalistico è necessaria per affrontare le policrisi contemporanee? E quali strumenti democratici, graduali ma irreversibili, possiamo utilizzare per realizzarla?
Tutto il resto è tattica elettorale mascherata da battaglia ideologica. È gestione dell’esistente spacciata per progetto di trasformazione. È l’ennesimo capitolo di una sinistra che ha dimenticato cosa significhi avere un orizzonte.

E senza orizzonte, anche il termine “riformismo” diventa vuoto. Una parola del passato usata per nascondere l’assenza di futuro.

Stefano Pierpaoli

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