Il film con la porchetta
L’ultima Festa Der Cinema…speriamo Arrivano i proclami del successo di pubblico al Festival di Roma ma tanto a Venezia quanto a Roma non ci sono stati film italiani degni di premio e di menzione, se non quelle elargite dagli amici e dagli amici degli amici. Il Festival di Roma non è ancora riuscito a liberarsi di quella filosofia cafona della manifestazione popolare in cui manifestazione vuol dire spreco/sfarzo e popolare vuol dire lanciare brioches dalla finestra del palazzo. Il concertino. Il porchettaro all’entrata. Il tappeto rosso. Gli stand griffati. L’Embassy con nessuna locandina, nessun manifesto e scarno da ogni punto di vista. È rimasto purtroppo ’A Festa Der Cinema di veltroniana memoria e le nuove amministrazioni hanno fatto ben poco per modificare questa deriva. L’apparato che controlla gli eventi con scientifica (im)precisione è ostaggio dei ricatti interni ed esterni che provengono dalla politica, dai baroni e dalle varie cupole che giocano al bunga bunga della cultura. Finché vincerà il teorema del porchettaro all’ingresso del festival, con tutto il rispetto per questa meravigliosa categoria che ci rifocilla, rimarremo lontani dal bello, da quell’ambizione legittima che dovrebbe essere garantita e che rieduca, riconquista e rigenera. Questo appuntamento romano è stato il festival come non lo vedremo più e ce lo auguriamo. Vogliamo una rassegna autentica, moderna e che raggiunga una sua identità non fatta di lustrini e di nomi famosi, ma di bei momenti che siano coniugati alla bellezza delle persone che coordinano e che animano uno spazio in cui si percepisce il battito, questo sì popolare, di un mondo che vive e che pretende di vivere meglio. Desideriamo tutti un festival che sceglie di ridare centralità alla Cultura e al senso di trovarsi insieme ed essere donne e uomini che partecipano a un evento che appartiene a tutti. SteP 5 novembre 2011
Anime vicine ma disunite
Nella puntata di ‘in 1/2h’ andata in onda oggi – 16 ottobre – sono intervenute tre anime distinte che di fronte alle domande della Annunziata hanno ben definito posizioni e caratteristiche della loro attività, sia essa movimentista o politica. È già di per sé triste trovarsi a distinguere così nettamente movimento e politica soprattutto in un momento che richiederebbe unità e condivisione, ma la pericolosa ondata di antipolitica che si è abbattuta con effetti tragici nella nostra immatura società ci costringe a tracciare confini che non vorremmo esistessero. Francesco Raparelli, ricercatore con una notevole esperienza politica, ha saputo delineare uno dei grandi problemi del movimento, quello cioè della frammentazione e dell’incapacità a riconoscersi in un percorso identitario che sappia oltrepassare lo slogan e l’omologazione nel malcontento. Si tratta di un limite che si manifestò già nei primi anni 2000, quando i no-global seppero portare in piazza milioni di persone senza trovare un indirizzo e senza impedire minimamente che i processi politici ed economici in atto variassero anche di poco la loro direzione. Potremmo dire semmai che impressero una velocità maggiore alle dinamiche devastanti del neoliberismo contro il quale si battevano. Ilenia Caleo, pasionaria leader dell’occupazione al Valle, ha rivendicato alcuni diritti dei lavoratori dello spettacolo cadendo come sempre in quella autoreferenzialità tipica dei vertici italiani, o di quanti diventano vertice grazie all’uso dei media, all’utilizzo dei VIP e allo sviluppo di tutte quelle evoluzioni tipiche dell’ultimo ventennio, nate nel rispetto della cultura berlusconiana: usare i media per aggregare e diffondere. Lei rappresenta in fondo una di quelle anime che più di altre si sono esposte nell’uso dell’antipolitica, rifiutando il confronto con i partiti, per lo meno in forma esplicita, e sottraendosi alle forme del dialogo proprie della democrazia. Avvalendosi di un gruppo estremamente valido nella comunicazione e nell’organizzazione, ha scelto di imporre un modello competitivo nei confronti delle altre realtà che lavorano nel territorio già da molti anni, arrivando fino a forme di censura, per ottenere la centralità della sua iniziativa di occupazione al Valle. Qui avviene la frattura che rischia di dare forza agli assetti dominanti e causa l’impoverimento della politica nel suo significato primo e inalienabile. Una lacerazione testimoniata negli interventi successivi di Stefano Fassina e di Matteo Orfini, responsabili economici e culturali del PD, nei quali sono emerse posizioni convergenti con quelle del movimento e al tempo stesso è venuta fuori l’assenza di quel dialogo indispensabile che dovrebbe avvenire tra queste realtà. In uno dei primi miei interventi proprio al Teatro Valle sollecitai la creazione di un terreno di confronto con la politica perché questo passaggio diventa doveroso proprio in un tempo come quello che stiamo vivendo. Così come descrissi percorsi comuni che potevano essere valorizzati dall’unione delle forze. Soprattutto sollecitai proposte concrete da portare alla politica e confrontarsi su quelle. In caso contrario, quella frammentazione denunciata da Raparelli e l’assenza di un’identità politica, non fanno altro che diventare i detonatori delle tante implosioni che albergano della disperazione, nell’esasperazione e nella colpevole ingenuità di sentirsi al centro del mondo mentre il mondo corre per conto suo a velocità doppia magari verso il baratro. Le immagini dei violenti alla manifestazione di ieri hanno preso il posto dei valori e delle istanze che tante migliaia di persone hanno portato per le strade romane. Non doveva succedere e se qualche centinaio di criminali prendono il sopravvento c’è qualcosa all’interno di quei cortei che non funziona. Lo ha detto Raparelli e lo stiamo pensando in molti. Smarrire il senso della politica rifiutando il confronto è uno dei maggiori fattori che producono lo spazio della violenza e che impoveriscono il messaggio e l’iniziativa democratica. Recuperare quel rapporto con quanti sono in ascolto e che possono rappresentare nelle Istituzioni la volontà di cambiamento e di rinascita che c’è in giro costituisce il passaggio necessario per riconquistare l’equilibrio civile che è essenziale alla sovranità popolare nel corretto sviluppo dei processi democratici. SteP 16 ottobre 2011
Intervento Pierpaoli a Venezia
Mostra Internazionale del Cinema 6 settembre 2011 – Lido di Venezia Casa degli Autori Intervento di Stefano Pierpaoli – Indicinema e Presidente CONSEQUENZE La spinta originaria che ha voluto suscitare e che anche ha suscitato l’iniziativa di Indicinema è caratterizzabile in un termine che è quello della contestualizzazione. Noi chiediamo infatti e abbiamo chiesto fin dall’inizio, una contestualizzazione nei tempi che stiamo vivendo, rispetto agli scenari sociali, politici, economici che stiamo attraversando. Non può che esserci allarme per quello che sta accadendo e angoscia per certe scelte mancate e per altre sbagliate, totalmente sbagliate, che vengono prese in questo paese. Dal nostro punto di vista, dovendo parlare di cinema e dovendo parlare di nuovi scenari, non potevamo tirare fuori il ragionamento sul cinema, e il nostro è un ragionamento di sistema sul cinema, ci teniamo a sottolinearlo. Noi proponiamo un modello proprio per inserire questa nostra proposta in una ragionamento di sistema che prima o poi andrà affrontato, e contestualizzare l’argomento cinema, l’argomento espressione cinematografica, l’argomento offerta culturale, vuol dire anche togliere il palcoscenico principale a taluni personaggi che pur nel loro ruolo autorevole spingono verso un immagine di un cinema che va a gonfie vele, che è in grande sviluppo che in grande salute. E questo fa un po’ l’eco di un atteggiamento politico che ci ha spinto all’ottimismo, che ci ha spinto a vedere le cose in maniera sempre positiva e che ha quindi alterato, non solo l’attività politica nella sua essenza, ma anche la percezione collettiva di quanto stava succedendo in Italia. E mi permetto di dire che chi porta, lavorando in questo ambiente, il discorso su questo livello , quindi forzando un immagine del cinema in grande salute, fa anche un operazione di propaganda finalizzata a mantenere un ruolo di potere e a mantenere degli assetti fortemente collegati alle categorie dominanti di questo cinema e collegati a vertici politici che hanno sbagliato nelle scelte che riguardano la cultura, che hanno tolto spazio all’espressione libera, alla circolazione libera delle idee e che hanno privato tanti talenti, soprattutto giovani, di un accesso che oggi che deve essere garantito dalla piattaforma multifunzionale che abbiamo a disposizione. La proposta di Indicinema è quella di entrare più dentro al problema della cultura nel suo significato originario, di strapparla da questa mistificazione politica e di tornare a lavorare anche con la Politica e soprattutto con la Politica per progettare concretamente quello che in questo periodo deve avvenire. Noi oggi abbiamo il piacere di ricevere i rappresentanti culturali dei partiti politici che hanno mostrato una particolare sensibilità non solo sull’argomento cultura ma sull’argomento “tempi che corrono” […]. Per chiudere, noi abbiamo un’urgenza ed è un’urgenza che si può realizzare anche a legge vigente. E noi dobbiamo riflettere e ragionare con grande serietà e responsabilità su tanti elementi che oggi inquinano l’offerta culturale cinematografica. La nostra richiesta parte da una riformulazione nelle composizioni delle commissioni che scelgono, che decidono. E qui chiediamo forme che costringano chi decide a responsabilizzarsi sulla sua stessa reputazione. Noi vogliamo sapere nome e cognome di chi da i soldi a film, vogliamo che venga scritto: “questi film sono stati finanziati da”. Non da una commissione fantomatica che viene scelta in maniera abbastanza nota, e soprattutto non vogliamo che il collegamento di queste commissioni agisca su gruppi autoreferenziali, nati in questi anni che sviluppano delle teorie abbastanza stravaganti e fuori dal tempo e spesso anche truffaldine, sempre nell’ottica dei loro contatti privilegiati con chi il cinema lo controlla. In secondo luogo, i criteri di selezione. I criteri di selezione che oggi ad esempio, tanto per citare l’enormità più evidente, è quella che si riferisce al reference system, una forma di soffocamento per chi vuole nascere e crescere. Noi chiediamo un immediata cancellazione del reference system che rappresenta una ferita molto profonda in questi criteri di selezione. Chiediamo degli organismi esterni che controllino le produzioni, i budget, come vengono utilizzate le risorse pubbliche. Chiediamo quindi maggiore trasparenza perché la risorsa pubblica in questo momento di depressione economica ha un valore maggiore e quindi non possiamo accettare che il controllato paghi il suo controllore come avviene oggi. E quindi che queste risorse vengano utilizzate al meglio e in maniera trasparente. E infine chiediamo che si crei insieme alla Politica e insieme agli operatori un paradigma etico e culturale ben riconoscibile e vicino ai tempi che corrono. Ricominciamo a interpretare i tempi che corrono, ricominciamo a rappresentare quello che succede in questo Paese. Io qui ho due maestri del cinema (Citto Maselli, Ugo Gregoretti ndr), loro hanno fatto un cinema che non solo era vicino alla cittadinanza, ma raccontava quello che succedeva in questo paese e lo raccontava senza sconti e senza retorica, senza didascalie, perché siamo costretti a fare dei precontratti con la televisione che quello ci chiede. Noi non vogliamo più che il cinema venga sottomesso a quello che ci chiede la televisione. Infine, vedo di fronte a me un paese estremamente chiuso, con un linguaggio estremamente limitato. I nostri giovani utilizzano un linguaggio estremamente limitato, la politica usa un linguaggio estremamente limitato. Come ha scritto Ludwig Wittgenstein “i confini del mio linguaggio sono i confini del mio mondo”. Stiamo attenti, facciamo usare nuovi linguaggi, utilizziamoli, esageriamo, rischiamo, provochiamo. Così ricominceremo a crescere. Perché quando sento qualche funzionario, qualche burocrate, che mi parla del cinema come mezzo per esprimere un’identità nazionale, ma allo stesso tempo fa scelte di vertice che limitano il linguaggio del cinema stesso allora mi chiedo come facciamo a tornare a crescere in un paese che non lascia il libero linguaggio nell’offerta culturale. Riapriamo i linguaggi perché un identità chiusa, che non si confronta, che non accetta la diversità, è un’identità povera, è un’identità quasi morta. E noi in questo momento abbiamo urgente bisogno di un’identità ancora più forte. Perché è su un’identità culturale forte che noi potremo appoggiare la ripresa e la rinascita di questo paese, perché i tempi che stanno arrivando hanno bisogno anche di un’offerta culturale al passo con la sfida che abbiamo di
RAISAT chiude a fine mese.
O meglio: la fanno chiudere 1. La situazione economico-finanziaria della RAI (a detta dei nuovi dirigenti e non abbiamo motivo di non credergli) è insostenibile. “Occorrono misure urgenti e drastiche per tagliare i costi e al tempo stesso mantenere uno standard qualitativo elevato” ha detto Mauro Masi, direttore generale della RAI. 2. RAISAT garantisce un entrata annua di 50 milioni di Euro da parte di SKY e può contare su un bacino di utenza di qualche milione di utenti (il totale degli spettatori di SKY è di circa 15 milioni). 3. RAISAT garantisce un livello qualitativo eccellente. Al suo interno lavorano 120 persone di ottima professionalità. 4. SKY ha un contratto per il quale trasmette RAISAT sulla sua piattaforma. SKY deve rinnovare il contratto e offre 350 milioni di Euro per sette anni, più altri 75 per l’accordo output dial, più altri 7 milioni l’anno provenienti dai proventi della pubblicità.. Il totale è di circa 475 milioni. La cifra ripianerebbe di gran lunga il disavanzo della RAI e rimarrebbero svariati milioni di Euro per il “riequilibrio dell’azienda”. 5. La RAI prevede invece di trasmettere i canali satellitari (senza più RAISAT) sulla piattaforma TiVu, la stessa di MEDIASET e de La7. Dal prossimo 31 luglio gli utenti di SKY non potranno piu vedere canali interessanti come quelli proposti dalla RAI, oltre alle tre tv nazionali Per vederla si dovrà acquistare un altro decoder. I cittadini abbonati SKY che dovranno avere due decoder, uno per la tv satellitare e l’altro per prendere i canali RAI e MEDIASET. Aggiungeteci il decoder digitale per ogni televisore presente in casa e capirete quanti disagi avremo a breve noi teleutenti, abbonati o meno. Domanda: Perché la RAI preferisce rinunciare a un canale di successo e danneggiare così la piattaforma SKY, che pure non è una sua diretta concorrente per fare una scelta che va solo a favore di MEDIASET? Risposta: Perché SKY è la diretta concorrente della piattaforma a pagamento MEDIASET PREMIUM. Le conclusioni sono semplicissime e anche il gran favore fatto al padrone è assai evidente. Stefano Pierpaoli 3 giugno 2009
Il divo
“Io non sono un politico. Sono un autore televisivo, e un autore televisivo non deve limitarsi a seguire i gusti del pubblico. Li deve interpretare, anticipare, deve capire dove vanno i suoi spettatori e quando può, deve cercare di modificare in meglio questi gusti. Quindi un autore è portato sempre a cambiare, cercare strade nuove e quando cambia fa incazzare i suoi spettatori. Ma i suoi spettatori lo seguono, lo aspettano, e quando lui ritorna, quando si presenta di fronte a loro, ecco che i suoi spettatori lo giudicano, e se quello che ha fatto è buono dicono: “Ecco, valeva la pena aspettare, perché ci siamo divertiti, abbiamo ritrovato con lui un rapporto e possiamo applaudire di nuovo”. È un brano dell’intervento di Michele Santoro nella puntata di questa sera. Lo ha detto praticamente all’inizio e si tratta di un incipit che chiarisce una serie di principi sui quali si dovrebbe basare la relazione tra autore e pubblico e tra rete televisiva e pubblico. Quando Santoro afferma che non vanno seguiti i gusti del pubblico nell’ideazione di un programma televisivo spiega un presupposto che il servizio pubblico RAI in particolare ha completamente abbandonato. Un prodotto tv pensato ed elaborato solo in funzione di quello che vuole la gente tradisce la sua stessa funzione, che dovrebbe avere un carattere formativo, educativo, ispiratorio e stimolare le intelligenze anche sul piano dell’innovazione e della ricerca.Si tratta tuttavia di un aspetto che suscita la riflessione su tutto il settore dell’offerta culturale, così allineato e sottomesso alla legge dei numeri e appiattito unicamente sulla richiesta di un pubblico che nel frattempo è sempre meno informato, meno colto e meno recettivo. Un pubblico bambino che deve avere l’illusione di aver scelto la sua trasmissione, il suo telefilm, il suo film al cinema e il suo spettacolo teatrale. Un pubblico sempre meno aperto all’innovazione (“Quando un autore cambia, fa incazzare i suoi spettatori”) e intontito dalla ripetitività dei palinsesti tv e dal cinema, anch’esso televisivo, così come dai vari modelli culturali imposti dall’alto. Aldilà dei corretti risentimenti nei confronti dei vertici RAI, Santoro ha evidenziato una ferita profonda che riguarda un problema più vasto dell’informazione e della gestione della cultura in Italia. Lo ha fatto dal suo palco col piglio del primattore e se anche in passato alcune sue scelte e certi suoi atteggiamenti possono aver destato qualche perplessità, siamo convinti che dalla trincea in cui è stato relegato da amici e nemici era arrivato il momento di trasmettere un segnale deciso non solo ai vertici della RAI e a quelli politici. Un paese che segue solo i sondaggi e i dati Auditel non ha solo uno spazio di manovra ristretto, ma anche un futuro pericolosamente limitato.
Essere problema o soluzione
Il tracollo greco, così come quelli che si stanno per verificare, sono dovuti alla cattiva gestione economica e finanziaria da parte degli esecutivi nazionali.Nulla da eccepire in merito a questa valutazione. Esiste tuttavia un ampio alveo in cui responsabilità e consapevolezza riguardano direttamente i cittadini, elettori o consumatori, che possono intervenire sulle scelte delle dirigenze grazie a forme di democrazia diretta o indiretta. Le reazioni rabbiose sono giustificate in quanto esprimono la frustrazione e lo sdegno delle masse, ma arrivano dopo anni, per non dire decenni, di lamenti e di contestazioni manifestate a singhiozzo o scambiati nei bar. Questo modello è esattamente quello adottato anche qui in Italia. Da 20 anni ci siamo (dovremmo essere) accorti che politica e burocrazia utilizzano il potere per sottrarre risorse economiche alla collettività e trattenerle a favore del partito (fino a tangentopoli) o, come avviene negli ultimi anni, a proprio vantaggio per l’acquisto di case, barche e per l’organizzazione di allegri festini danzanti. Ci verrebbe da pensare che esiste una diffusa coscienza del malaffare che attanaglia l’Italia e che crea povertà per la maggioranza della popolazione, frena lo sviluppo economico e mina profondamente lo stato sociale generando disagio ed esclusione. Gli esclusi, un abbondante 80% degli Italiani, scelgono tuttavia la loro stessa esclusione. Si paralizzano sul lamento, talvolta sulla recriminazione, ma preferiscono sottostare al sempre più rapido smottamento delle sicurezze sociali. Accettano di fatto una condizione di inferiorità e di masochismo e si lasciano travolgere dagli eventi, adottano modelli esistenziali ispirati alla sopravvivenza e alla furbizia spicciola e qualche volta si radunano nelle piazze tenendosi ben protetti nell’ombra del palco, del vessillo o del comunicatore (politico, sindacale o comico) che li esonera dall’impegno e dalla responsabilità Questa drammatica forma di autodeterminazione verso la catastrofe è testimoniata soprattutto nei settori che più di altri avrebbero il dovere di fare argine e fermare la degenerazione in atto. Un intero ambiente artistico è immerso nella sola difesa di fortificazioni erette intorno alla singola attività, senza accorgersi che aldilà delle barricate c’è ormai un territorio desertificato e che il potere al quale si è riferito per chiedere assistenza o protezione, si è ormai dissolto e sta facendo le valigie per salvarsi dal crollo. Migliaia di operatori e artisti si intrecciano nel nulla senza rendersi conto che non è più tempo di rappresentare il nulla: siamo soluzione oppure siamo problema. Non esiste l’interstizio del disimpegno se non nei corridoi angusti dell’isolamento che tanto ricordano la segregazione nei manicomi o quella più attuale dei social network. Siamo soluzione oppure siamo il problema e finchè non saremo in grado di tracciare percorsi nuovi e determinare condizioni di sviluppo all’interno delle nostre comunità, finchè ci limiteremo a delegare e a tirarci indietro, si continuerà solo ad alimentare il problema e ad essere parte integrante e organica della dissoluzione che ci sta ingoiando. Essere “contro” ed essere nulla è più che mai fuori moda. Occupare, puntare i piedi e inveire è anacronistico e profondamente ipocrita. Sono pratiche che fanno parte della crisi di civiltà e che portano con sé una penosa assenza di civiltà che conduce, com’è chiaro, al tribalismo e alla superstizione. Totem e tatuaggi dilagano mentre il padrone ingrassa fino ad esplodere. Se anche siamo esclusi dalle scelte, non siamo esclusi dall’imbroglio e dal danno, ma le meravigliose energie e gli spazi smisurati che non sappiamo sfruttare e valorizzare sono il marchio della sconfitta più dolorosa e più infame, perché è quella che ci saremo procurati da soli. Partecipa anche tu al nostro sondaggio! Inviaci il tuo commento