In divisa da caos

Il panorama orgiastico da cui siamo circondati, rispetto al quale tentiamo con vari stratagemmi di ribellarci, è giunto a una sintetica definizione grazie alla dichiarazione di un Carabiniere e afferrata dalla telecamera (forse) di un cellulare.
Un rappresentate delle Istituzioni, un Pubblico Ufficiale, ha proclamato con estrema chiarezza il suo mancato riconoscimento a Sergio Mattarella come Presidente della Repubblica.
Va innanzitutto sottolineato che l’Arma dei Carabinieri è ogni giorno in prima linea per contrastare la delinquenza, la criminalità organizzata e garantire il rispetto della Legge. Stiamo perciò parlando di un caso isolato espresso da un singolo soggetto che non raffigura in nessun modo il ruolo imprescindibile e fondamentale della Benemerita. Le valutazioni e gli eventuali provvedimenti a suo carico non devono riguardarci.
In realtà non stiamo nemmeno parlando del militare in questione, ma della riflessione che questo fatto può suscitare nelle nostre coscienze.

Questa vicenda, più di altre, permette di addentrarci in un cunicolo tetro ma al tempo stesso ricco di interessanti suggestioni proprio per la natura dei protagonisti: un uomo in divisa e una cittadina italiana.
“Non è il mio Presidente” è una frase evidentemente incoraggiata dai bizzarri impulsi riformatori che, in estrema sintesi, vorrebbero ridurre i poteri del Presidente della Repubblica e offrire mano libera a un premier eletto dal popolo. Pulsioni ingenue e deleterie perché generate da alcuni analfabeti della politica, incapaci di decifrare i segnali della storia e delle dinamiche sociali.
Lo stesso episodio manifesta tuttavia il sintomo sempre più diffuso di una patologia che sta colpendo in misura profonda i nostri assetti democratici.

Il cunicolo comincia a mostrare una direzione.
La Democrazia ha attraversato nella storia fasi molteplici e contrastanti. Non è naturalmente questa la sede per approfondire i connotati di queste modificazioni.
Va rimarcato però il fatto che dalla Repubblica di Platone alla Democrazia Cristiana di Aldo Moro (passando per More, Machiavelli, Hobbes, de Tocqueville, Marx, Popper solo per citarne alcuni) essa ha seguito un itinerario di maturazione sulla base di ricerche filosofiche e studi politici che hanno creato una sorta di filo comune durato fino alla fine degli anni ’70.
Il Neoliberismo ha poi tagliato di netto questo filo e disarticolato il percorso, fino ad allora ininterrotto, storicamente e umanamente indirizzato verso il progresso civile, le simmetrie economiche e l’equilibrio sociale.
A causa dell’intervento deformante di questa dittatura mediatico-economica, si sono andati via via frantumando il sogno e l’utopia così come, per citare le ultime grandi ideologie, il vincolo conservativo liberale e l’esigenza progressista rivoluzionaria.

Il cunicolo raggiunge una zona più buia e fredda.
Ne è scaturito l’impoverimento intellettuale della classe politica e la perdita d’identità dei partiti, ridotti a un ruolo che nel migliore dei casi può essere accostato a quello di un rozzo comitato d’affari.
La svalutazione e il dissolvimento di ogni filosofia politica che potesse illuminare le classi dirigenti ha oltretutto sgretolato il legame indissolubile tra rappresentanza e partecipazione popolare.
La grande e secolare questione del raggiungimento di una qualche armonia collettiva come traguardo politico è stata convertita e semplificata attraverso strategie di consenso basate su operazioni di misero marketing sociale.
La totale finanziarizzazione dei mercati ha sottomesso il potere esecutivo dei governi, i quali non sono ormai che miseri esecutori della volontà dei potentati economici.
Parliamo di governi palesemente composti da figure di scarsissimo spessore e dolorosamente prive di una qualsivoglia visione di futuro.

In fondo al cunicolo comincia ad apparire qualcosa
Le masse, in questo inesorabile processo di oppressione, sono state trasformate in un immenso gregge agitato da percezioni. Istinti molto spesso segnati dalla disillusione, dalla sfiducia e dalla rassegnazione che, saldati da un drammatico declino formativo-culturale, contribuiscono, seppure inconsapevolmente, al generale processo di disgregazione della democrazia.
Il gigantesco tritacarne in cui siamo ammassati ha fatto sì che il popolo non chieda più di essere rappresentato. La sovranità popolare espressa da un parlamento è purtroppo diventata un noioso e trascurabile dettaglio sul quale dissertare non è solo anacronistico ma è anche inutile.

La disperazione (indotta) ha fame di leader, di campioni, di salvatori, di divi e non di rappresentanti democratici.
Il mercato è sempre pronto produrre in serie i protagonisti di questa desolante recita da salotto. Ognuno con un suo ruolo in uno show senza fine.
Politici, giornalisti, opinionisti di ogni foggia, sovraesposti nel vortice mediatico, sono accostabili alle subrettine e ai saltimbanchi delle sagre di piazza. Figurine che saltano da un album all’altro per fingere di comunicare qualcosa. Di fronte hanno però un pubblico anestetizzato che li segue senza badare, senza accogliere ma soprattutto, senza elaborare.

Il cunicolo è sfociato in una grande grotta.
La morte della democrazia, che è bene ricordare è il governo delle regole e non delle persone, ha trascinato via con sé quella relazione di fiducia e partecipazione, non importa a che livello, che manteneva al centro i diritti al progresso e al benessere. Una relazione resa salda nel dopoguerra grazie al valore della rappresentanza che donne e uomini virtuosi potevano esprimere e garantire sulla base dei principi individuali e dell’identità dei partiti cui appartenevano. Uno scenario formato nel quadro di valori di notevole peso specifico che assicurava alle classi dirigenti qualità intellettuale e assunzione di autentica responsabilità nel rispetto della Costituzione.
“Non è il mio presidente” non costituisce una negazione cosciente ma testimonia l’assenza di coscienza.
Non riassume un pensiero diffuso ma manifesta la carenza di pensiero nella nostra società.
Non indica una seppur confusa volontà popolare ma denuncia lo smarrimento della popolazione nel suo insieme.
È nella risposta della signora lo snodo tragico e seducente che svela il caos in cui viviamo. La signora chiede: ”E di che paese è lei?”, che sembra voler dire: ma se lei risponde così, in che razza di società ci troviamo?
Si potrebbe aggiungere “se Razzi o Lollobrigida arrivano in parlamento cos’è successo e cosa sta succedendo?” e continuare con altre mille domande sullo stesso tono. Interrogativi che in tanti si pongono in virtù della profonda crisi di rapporto tra cittadini e politica.
Per imboccare un sentiero occorre riconoscere alla guida una competenza speciale ma prima ancora bisogna comprendere il nesso originario che mette in rapporto il sentiero e la guida.
Ci inoltreremmo nel bosco se la guida avesse scoperto quel cammino cacciando animali di specie protette? Gli daremmo credito se lo usasse solo per farci arrivare magari al suo ristorante e utilizzarci per la promozione di una sua proprietà? E se il tipo possedesse lì vicino una discarica abusiva?
Con una guida così, se ci sorprendesse il maltempo, la gita si trasformerebbe in disastro.

La democrazia pretende una fiducia consapevole che possa spaziare a 360°. Una fiducia plurale, resa forte dai contrappesi istituzionali e in cui il pensiero alternativo è considerato un contributo con cui confrontarsi e non una minaccia da annientare.
A patto che sia un pensiero compiuto e non un’idiozia.

Sull’ingiustificabile vicenda delle catene messe a Ilaria Salis (e anche sulla sua inaccettabile detenzione) il leghista Salvini ha dato il peggio di sé.
Un esempio della deprimente qualità intellettuale di chi ci governa e un pessimo segnale sullo stato di salute della nostra democrazia.

Da un cunicolo lugubre e angusto si può uscire. La grotta gelida in cui si immette ha sicuramente un varco che consente di tornare alla luce. Alla libertà.
È un tragitto che non prevede capi eletti da un popolo fantasma ed esige eccellenze in un parlamento in cui non ci siano faccendieri e lacchè.

Stefano Pierpaoli
02/02/2024

In divisa da caos Il panorama orgiastico da cui siamo circondati, rispetto al quale tentiamo con vari stratagemmi di ribellarci, è giunto a una sintetica definizione grazie alla dichiarazione di un Carabiniere e afferrata dalla telecamera (forse) di un cellulare. Un rappresentate delle Istituzioni, un Pubblico Ufficiale, ha proclamato con estrema chiarezza il suo mancato riconoscimento a Sergio Mattarella come Presidente della Repubblica. Va innanzitutto sottolineato che l’Arma dei Carabinieri è ogni giorno in prima linea per contrastare la delinquenza, la criminalità organizzata e garantire il rispetto della Legge. Stiamo perciò parlando di un caso isolato espresso da un singolo soggetto che non raffigura in nessun modo il ruolo imprescindibile e fondamentale della Benemerita. Le valutazioni e gli eventuali provvedimenti a suo carico non devono riguardarci. In realtà non stiamo nemmeno parlando del militare in questione, ma della riflessione che questo fatto può suscitare nelle nostre coscienze. Questa vicenda, più di altre, permette di addentrarci in un cunicolo tetro ma al tempo stesso ricco di interessanti suggestioni proprio per la natura dei protagonisti: un uomo in divisa e una cittadina italiana. “Non è il mio Presidente” è una frase evidentemente incoraggiata dai bizzarri impulsi riformatori che, in estrema sintesi, vorrebbero ridurre i poteri del Presidente della Repubblica e offrire mano libera a un premier eletto dal popolo. Pulsioni ingenue e deleterie perché generate da alcuni analfabeti della politica, incapaci di decifrare i segnali della storia e delle dinamiche sociali. Lo stesso episodio manifesta tuttavia il sintomo sempre più diffuso di una patologia che sta colpendo in misura profonda i nostri assetti democratici. Il cunicolo comincia a mostrare una direzione. La Democrazia ha attraversato nella storia fasi molteplici e contrastanti. Non è naturalmente questa la sede per approfondire i connotati di queste modificazioni. Va rimarcato però il fatto che dalla Repubblica di Platone alla Democrazia Cristiana di Aldo Moro (passando per More, Machiavelli, Hobbes, de Tocqueville, Marx, Popper solo per citarne alcuni) essa ha seguito un itinerario di maturazione sulla base di ricerche filosofiche e studi politici che hanno creato una sorta di filo comune durato fino alla fine degli anni ’70. Il Neoliberismo ha poi tagliato di netto questo filo e disarticolato il percorso, fino ad allora ininterrotto, storicamente e umanamente indirizzato verso il progresso civile, le simmetrie economiche e l’equilibrio sociale. A causa dell’intervento deformante di questa dittatura mediatico-economica, si sono andati via via frantumando il sogno e l’utopia così come, per citare le ultime grandi ideologie, il vincolo conservativo liberale e l’esigenza progressista rivoluzionaria. Il cunicolo raggiunge una zona più buia e fredda. Ne è scaturito l’impoverimento intellettuale della classe politica e la perdita d’identità dei partiti, ridotti a un ruolo che nel migliore dei casi può essere accostato a quello di un rozzo comitato d’affari. La svalutazione e il dissolvimento di ogni filosofia politica che potesse illuminare le classi dirigenti ha oltretutto sgretolato il legame indissolubile tra rappresentanza e partecipazione popolare. La grande e secolare questione del raggiungimento di una qualche armonia collettiva come traguardo politico è stata convertita e semplificata attraverso strategie di consenso basate su operazioni di misero marketing sociale. La totale finanziarizzazione dei mercati ha sottomesso il potere esecutivo dei governi, i quali non sono ormai che miseri esecutori della volontà dei potentati economici. Parliamo di governi palesemente composti da figure di scarsissimo spessore e dolorosamente prive di una qualsivoglia visione di futuro. In fondo al cunicolo comincia ad apparire qualcosa Le masse, in questo inesorabile processo di oppressione, sono state trasformate in un immenso gregge agitato da percezioni. Istinti molto spesso segnati dalla disillusione, dalla sfiducia e dalla rassegnazione che, saldati da un drammatico declino formativo-culturale, contribuiscono, seppure inconsapevolmente, al generale processo di disgregazione della democrazia. Il gigantesco tritacarne in cui siamo ammassati ha fatto sì che il popolo non chieda più di essere rappresentato. La sovranità popolare espressa da un parlamento è purtroppo diventata un noioso e trascurabile dettaglio sul quale dissertare non è solo anacronistico ma è anche inutile. La disperazione (indotta) ha fame di leader, di campioni, di salvatori, di divi e non di rappresentanti democratici. Il mercato è sempre pronto produrre in serie i protagonisti di questa desolante recita da salotto. Ognuno con un suo ruolo in uno show senza fine. Politici, giornalisti, opinionisti di ogni foggia, sovraesposti nel vortice mediatico, sono accostabili alle subrettine e ai saltimbanchi delle sagre di piazza. Figurine che saltano da un album all’altro per fingere di comunicare qualcosa. Di fronte hanno però un pubblico anestetizzato che li segue senza badare, senza accogliere ma soprattutto, senza elaborare. Il cunicolo è sfociato in una grande grotta. La morte della democrazia, che è bene ricordare è il governo delle regole e non delle persone, ha trascinato via con sé quella relazione di fiducia e partecipazione, non importa a che livello, che manteneva al centro i diritti al progresso e al benessere. Una relazione resa salda nel dopoguerra grazie al valore della rappresentanza che donne e uomini virtuosi potevano esprimere e garantire sulla base dei principi individuali e dell’identità dei partiti cui appartenevano. Uno scenario formato nel quadro di valori di notevole peso specifico che assicurava alle classi dirigenti qualità intellettuale e assunzione di autentica responsabilità nel rispetto della Costituzione. “Non è il mio presidente” non costituisce una negazione cosciente ma testimonia l’assenza di coscienza. Non riassume un pensiero diffuso ma manifesta la carenza di pensiero nella nostra società. Non indica una seppur confusa volontà popolare ma denuncia lo smarrimento della popolazione nel suo insieme. È nella risposta della signora lo snodo tragico e seducente che svela il caos in cui viviamo. La signora chiede: ”E di che paese è lei?”, che sembra voler dire: ma se lei risponde così, in che razza di società ci troviamo? Si potrebbe aggiungere “se Razzi o Lollobrigida arrivano in parlamento cos’è successo e cosa sta succedendo?” e continuare con altre mille domande sullo stesso tono. Interrogativi che in tanti si pongono in virtù della profonda crisi di rapporto tra cittadini e politica. Per imboccare un sentiero occorre riconoscere alla guida una competenza speciale ma prima ancora bisogna comprendere il nesso originario che mette in rapporto il sentiero e la guida. Ci inoltreremmo nel bosco se la guida avesse scoperto quel cammino cacciando animali di specie protette? Gli daremmo credito se lo usasse solo per farci arrivare magari al suo ristorante e utilizzarci per la promozione di una sua proprietà? E se il tipo possedesse lì vicino una discarica abusiva? Con una guida così, se ci sorprendesse il maltempo, la gita si trasformerebbe in disastro. La democrazia pretende una fiducia consapevole che possa spaziare a 360°. Una fiducia plurale, resa forte dai contrappesi istituzionali e in cui il pensiero alternativo è considerato un contributo con cui confrontarsi e non una minaccia da annientare. A patto che sia un pensiero compiuto e non un’idiozia. Sull’ingiustificabile vicenda delle catene messe a Ilaria Salis (e anche sulla sua inaccettabile detenzione) il leghista Salvini ha dato il peggio di sé. Un esempio della deprimente qualità intellettuale di chi ci governa e un pessimo segnale sullo stato di salute della nostra democrazia. Da un cunicolo lugubre e angusto si può uscire. La grotta gelida in cui si immette ha sicuramente un varco che consente di tornare alla luce. Alla libertà. È un tragitto che non prevede capi eletti da un popolo fantasma ed esige eccellenze in un parlamento in cui non ci siano faccendieri e lacchè. Stefano Pierpaoli 02/02/2024

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