Il vivace dibattito che si sta animando nel mondo dello spettacolo poggia soprattutto sulle giuste rivendicazioni di una categoria che nell’attimo in cui si è manifestata la pandemia si è scoperta profondamente vulnerabile e pressoché priva di tutele previdenziali.
Lo svelamento di questa condizione ha rapidamente moltiplicato le iniziative di mobilitazione per denunciare l’inevitabile disagio economico al quale sono condannati i lavoratori dello spettacolo.
Qualcuno potrebbe rilevare che si tratti di una vertenza appartenente a tutte le categorie del mondo del lavoro e dell’impresa e di fatto è così.
Essa assume tuttavia un rilievo particolare perché si intreccia con una sua specificità di espressione e di ruolo per l’ampio coinvolgimento popolare legato all’industria dell’intrattenimento.
Questo comparto, che vale in Italia quasi 40 miliardi l’anno, subirà un drastico ridimensionamento nei volumi d’investimento e negli spazi di vendita di prodotto. Sulla televisione peseranno i tagli delle spese pubblicitarie e le produzioni cinematografiche e teatrali, ma non solo quelle, saranno gravemente penalizzate dalla difficoltà di allestimento dei set e delle prove oltre che dalla chiusura totale o parziale dei cinema e dei teatri.
In questo scenario si aprono due questioni.
La prima riguarda il rilancio degli investimenti e dell’attrattività pubblicitaria e la seconda è legata ai modi di produzione e al coinvolgimento del pubblico.
Ce ne sarebbe una terza che interessa il valore sociale dell’offerta ma fino a oggi, aldilà delle semplificazioni e della retorica da social network, non sembra essere considerata un argomento prioritario (1.679 battute senza usare la parola cultura e i suoi derivati…wow!).
L’elemento primario della chiamata alle armi verte legittimamente su un’impellenza economica che opprime e fa paura. Un senso di urgente bisogno che oltre a sollecitare una dovuta attenzione da parte delle Istituzioni cerca di rappresentare un’area di impulso e di sviluppo fondamentale per il benessere collettivo.
Bisogna ammettere che questo arruolamento fatto di raccolte di firme e gruppi Facebook risente di una certa asimmetria. Tutte queste iniziative avanzano talvolta sulla spinta e sull’entusiasmo di alcune realtà di riferimento e più sovente sulla rapida aggregazione che avviene sulla base di poche parole d’ordine. In alcuni casi si tratta di numeri importanti che vengono però raggiunti grazie a dinamiche di adesione istantanee e istintive. Gli aderenti figurano in più elenchi in un apparire grottesco e insensato.
Frequenti le frammentazioni nei percorsi e i travasi tra un gruppo e l’altro in un’atmosfera che molto spesso declina nell’apatia e nel progressivo disimpegno.
Le sigle dei padroni si uniranno a quelle dei sudditi che camminando sui ginocchi arriveranno a una trattativa già chiusa in partenza.
Sono queste caratteristiche molto italiane e diffuse in tutti i nostri contesti sociali.
Sarebbe forse saggio un ripensamento sulle raccolte delle firme che è un modello abusato che mostra già da molto tempo evidenti segni di logorio. A questo va aggiunto che il potere costituito va a nozze con le raccolte di firme così come fa godere i padroni della giostra.
In questo caso bisogna però sottolineare che metodi, bisogno e frammentazione sono parte integrante e di fatto sono stati creati da un sistema degenerato fin quasi alla decomposizione. Prova ne è il fatto che all’assenza di un assetto previdenziale corrisponda, o per meglio dire corrispondeva, una martellante esaltazione del grande successo del cinema italiano. Tutto questo successo non ha di fatto coinciso con la valorizzazione delle professioni e con la messa a sistema di adeguati strumenti di garanzia sociale. Prova evidente che gli ingranaggi della macchina dei sogni ruotavano solo su accordi di vertice e godevano del silenzio dei lavoratori, tanto che doveva essere chiaro a tutti che se fosse avvenuto un intoppo in tanti sarebbero stati abbandonati.
Beh, l’intoppo c’è stato. E che intoppo.
È chiaro, ed è anche giusto, che in una fase così drammatica il primo pensiero vada alla spesa e alle bollette, ed è altrettanto ineludibile che le Istituzioni debbano dare risposte precise e risolutive al più presto.
Resta tuttavia la forte preoccupazione che misure temporanee che risolvano il problema economico per qualche mese non corrispondano al ripensamento e quindi alla rigenerazione di un settore che dovrà fare i conti con la storia e con se stesso.
La concessione a stralcio, da parte del Ministro, dei sostegni richiesti, potrebbe rivelarsi paradossalmente per i beneficiari una terribile sconfitta. È la dinamica subita da milioni di lavoratori dalla seconda metà degli anni ’70. Il patto non è mai stipulato con loro. L’accordo avviene sempre e solo con i padroni. Un accordo criminale e repressivo per i diritti dei lavoratori che serve ad alimentare un sistema che ha prodotto disuguaglianza, miseria e disperazione. Ce lo dice la storia e oggi dovrebbe essere chiaro a tutti.
Le grandi vertenze sindacali non hanno speranza se partono dal basso specie in assenza di una definita coscienza di classe. Non hanno speranza se non incontrano e se non sono sostenute da un profondo lavoro politico. Non raggiungono nessun obiettivo se non presentano una visione e non creano prospettive nel lungo periodo.
Non arriveranno da nessuna parte se non creano contraddizioni al sistema elevando il livello intellettuale della protesta. Elemento determinate soprattutto quando si rivendica un elevato valore sociale del proprio ruolo.
Un reddito di garanzia o di emergenza rappresenta il corretto traguardo da conquistare nell’immediato ma deve essere la tappa preparatoria, anche nel suo valore simbolico, per costruire il modello produttivo del futuro.
Quello e nient’altro sarà la vera garanzia per migliaia di lavoratori, perché consoliderà il ruolo delle professioni, permetterà di valorizzare i talenti e assicurerà a tutto l’ambiente di lavorare nella legalità e nella trasparenza.

Quando questo brutto momento sarà passato cammineremo con molta probabilità sulle macerie di una società colpita al cuore e disarticolata nei suoi riferimenti e nei rituali collettivi.
Ci sarà voglia di tornare nei cinema, nei teatri e in tutti i luoghi che ad oggi risultano subordinati a un sistema totalitario e oppressivo basato sui numeri e non sulla dignità della persona.
Quei luoghi avranno l’obbligo di riconquistare un valore sociale ben percepito dalla popolazione per tornare a essere ricchezza culturale e garantire ai cittadini lo strumento più efficace per riprendersi la vita.
E finalmente si potrà tornare a parlare di mondo della cultura senza ipocrisie e senza fare retorica.

Stefano Pierpaoli
28/06/2020

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