Alcune persone potrebbero ritenere che Stati Generali è un appellativo forte per presentare un’iniziativa sullo stato e sul progetto della cultura. Potrebbero pensare che non è il caso dei solenni consessi che si rendono necessari in una condizione di pericolo incombente oppure in una situazione di ricostruzione sulle macerie. Di fronte a questa perplessità appare assai semplice trovare motivazioni e riferimenti che spingono una grande forza politica del Paese a convocare degli stati generali e provare a ripensare l’essenza delle dinamiche della produzione e dell’offerta culturale nel suo complesso.

“La cultura contro la crisi” è stato il titolo usato in qualche caso per introdurre i vari stati generali territoriali. Un messaggio più che corretto sia dal punto di vista dell’azione intellettuale che da quello dei processi economici che il mondo della cultura può stimolare. Ma se questa crisi verrà affrontata dagli operatori culturali e dagli intellettuali con gli stessi presupposti di intervento e con le stesse formule dialettiche che abbiamo osservato e ascoltato negli ultimi due decenni, e se la determinazione della crisi resterà circoscritta alla rappresentazione di indici di borsa e di livelli di spread, il tracollo da più parti paventato non solo sarà ineluttabile ma verrà addirittura accelerato e accresciuto dall’approssimazione, dall’ipocrisia e dalla subalternità di una vasta categoria di soggetti che dominano la comunicazione e che in questi anni si sono resi sempre più funzionali alle direttive di una politica scellerata e ai dettami di un mercato omologante e sclerotizzato su un’offerta misera e sottomessa.

Se quindi di stati generali si tratta davvero, occorre che il tentativo sia quello di provare a raggiungere il cuore del problema che è causa del dissesto e degli squilibri che hanno marginalizzato la produzione di cultura sia a livello espressivo che sul piano dei volumi di risorse ad essa destinate.

Dal 2007, più o meno, il nucleo del dibattito si è caratterizzato, in particolare nel cinema, sul problema del FUS, del Tax Shelter, del tax credit, dei multisala. Questioni importanti e spesso decisive per la stessa sopravvivenza di un intero settore, ma che nello scenario che appariva evidente, o che doveva apparire chiarissimo da molto prima del 2007, non potevano che essere battaglie di retroguardia rispetto a un’emergenza che cresceva in modo esponenziale nel campo della circolazione delle idee, della libertà di espressione e nelle potenzialità degli strumenti di conoscenza sempre più carenti e condizionati.

Un’emergenza in cui l’aspetto economico e finanziario poteva costituire solo un capitolo conclusivo rispetto invece alla necessità improrogabile di una ricomposizione del tessuto artistico e creativo sfilacciato dal lungo periodo di oscurantismo e di influenza totalitaria da parte dei partiti, dei media controllati e di un’imprenditoria concentrata solo sulla rincorsa suicida alla finanziarizzazione dei rapporti economici.

Ne è scaturito un panorama desolato in cui i valori principali sono stati quelli della relazione privilegiata, dell’appartenenza alla corporazione accreditata, dell’accesso ai media previa accettazione e scambio di favori. Ne è venuto fuori un paese che ha scelto o è stato costretto alla passività, alla subordinazione e al vassallaggio, seppur in molti casi ben retribuito. Un’Italia che ha deviato paurosamente sull’individualismo invece che sulla progettualità e sull’organizzazione. Ne è risultato un paese disomogeneo, disunito e fortemente competitivo nella sua forma peggiore che è quella dell’antagonismo o della sopraffazione. Perfino alcuni fenomeni di protesta, nati da legittime rivendicazioni e che almeno all’inizio hanno presentato forme di proficua elaborazione, sono finiti col riproporre schemi e modelli simmetrici, per non dire identici, rispetto a quelli che essi stessi avevano contestato.

I problemi della cultura si chiamano, pizzo, usura, prostituzione, riciclaggio, seppur declinati in diverso senso e manifestati attraverso forme più o meno esplicite di ricatto, sperequazioni e mortificazione dei talenti e del merito. Sarebbe triste se qualcuno interpretasse questa affermazione solo in quanto provocazione. Sarebbe triste perché sarebbe il segno che si vuole continuare a voltarsi dall’altra parte e a negare che in Italia anche la cultura risente di un profondo inquinamento di comportamenti mafiosi, testimoniati in modo evidente e ben conosciuto da atteggiamenti di intimidazione, assoggettamento e omertà, che sono notoriamente fenomeni pre-mafiosi o para-mafiosi. Questi comportamenti soffocano la libera circolazione delle idee, il pluralismo dell’informazione, l’accesso al credito e tutte le iniziative che avrebbero invece bisogno di quello spazio sano e indipendente che solo il lavoro, il merito, l’impegno sociale, la partecipazione attiva e consapevole e regole trasparenti e uguali per tutti possono garantire.

Questi sono i principi che hanno animato e che hanno sospinto il progetto Indicinema, basato sull’indipendenza espressiva e creato non all’interno di caste e corporazioni autoreferenziali ma sviluppato alla luce di un modello partecipato e orizzontale, in cui finalmente gli operatori culturali e professionali tornano a rivestire un ruolo principale assicurato dalla centralità dell’opera e non del profitto.

Era infatti quanto meno improbabile che in un quadro nazionale così frastagliato, lacerato da lotte intestine e da arrampicamenti perversi, la politica o il mondo imprenditoriale potessero fornire garanzie programmatiche capaci di far rinascere e dare impulso a un settore da anni moribondo. Nello stesso tempo abbiamo cercato tuttavia con forza il confronto con la buona politica, quella cioè che recepisce, che sa interpretare e che è al servizio del bene comune, per ritrovare serenità e armonia nella ricomposizione di un rapporto essenziale tra produzione culturale e Istituzioni. La stessa cosa stiamo facendo nei confronti degli imprenditori della cultura, affinché comprendano che i disequilibri dell’offerta culturale e le posizioni predominanti nella produzione e nella distribuzione sono al tempo stesso antieconomiche e antistoriche e non producono altro se non il dissesto drammatico che stiamo vivendo.

La nostra proposta nei suoi punti cardine è abbastanza conosciuta e le tappe per lo sviluppo di questo modello sono continuamente rese note, ma quello che ci sta maggiormente a cuore è il messaggio che deve scaturire da questo tipo di iniziativa.

Abbandoniamo le filosofie dell’orticello e le scelte dell’interesse particolare. Ragioniamo come un paese moderno che comprende che le sfide che abbiamo di fronte si vincono tutti insieme o si perderanno in modo rovinoso per tutti. Si evada dal vizio di sovrapporsi per soffocare e di sorpassare per arrivare primi. Il traguardo possibile è solo quello che sarà tagliato simultaneamente da tutto il Paese e il premio smetterà di essere la poltrona, la posizione egemonica, la corsia preferenziale, la spartizione della torta.

Questo è quello che chiede tutta la popolazione e che chiedono soprattutto milioni di giovani che vedono il loro futuro depredato e annullato dalle aristocrazie intoccabili e dagli assetti medievali fatti di cupole, di padroni e di cortigiani.

Al tempo stesso, al mondo della cultura chiediamo una riflessione onesta e profonda che possa portare al superamento di uno stallo che dura ormai da troppi anni. Un impegno che venga offerto su piani diversi, non mediatici e non sporadicamente simbolici, ma effettivi e concreti, mettendo le mani nel cuore dei problemi e senza timore di sporcarsele, operare onestamente per riequilibrare scompensi inaccettabili. L’Italia e gli Italiani non hanno bisogno di dichiarazioni di principio improntate su esercizi retorici privi di onestà intellettuale ed esposte a quattro colonne, specie se questi annunci – consolatori, ruffiani o propagandistici – arrivano da gente che vive su torri dorate che nulla hanno a che fare con la realtà di milioni di cittadini. Dal mondo della cultura non possono arrivare simulazioni d’impegno né truffe ideologiche. Chi ha gestito e pretende di continuare a gestire gli scarni flussi espressivi che riempiono la pancia del padrone, dei suoi famigliari e dei suoi amici accetti di fare un passo indietro e soprattutto rinunci ad aggredire e a tentare di soffocare le spinte limpide, coraggiose, appassionate che provengono da coloro che fino a oggi sono stati tenuti ai margini. Il sistema che è stato prodotto dalle classi dirigenti di questo Paese non solo lascia indietro chi non fa parte delle caste ma crea generazioni intere da escludere e da lasciare indietro.

Il sistema. Da anni in molti ci battiamo per trasmettere segnali sulla crisi sistemica. Appelli che si sono persi nel vuoto e che sono stati respinti con formule dissimulatrici che invitavano all’ottimismo e alla speranza. Che esortavano al consenso e intanto ci spingevano verso il baratro. Al recupero di validi e appropriati riferimenti culturali è stato preferito il tappeto rosso, la notte bianca, la festa del cinema.

Ora tutti citano la crisi sistemica e lo fanno come usando una breve equazione che possa esaurire il problema: la “crisi è sistemica” quindi ineluttabile e nessuno ne è responsabile. Nessuno ha colpa, e gli stessi che l’hanno generata e che hanno sguazzato nel delirio dell’ultimo ventennio salgono sui palchi per pontificare sui modi per uscirne. Sono i loro modi e ad uscirne vorrebbero essere solo loro. Ecco perché reagiscono all’iniziativa libera, innovativa e trasparente con l’intimidazione e l’aggressione e provano a ucciderla mettendocene un’altra sopra, magari simile nella facciata ma marcia al suo interno.

Per questo un appello vigoroso va alla Politica e alle Istituzioni. Questo Paese ha bisogno di regole certe, le donne e gli uomini di questo paese hanno bisogno di regole certe, i giovani ne hanno bisogno. Il mercato stesso ne ha bisogno. Senza una classe politica autorevole e senza Istituzioni che operano nel pieno equilibrio dei poteri e delle funzioni non sarà possibile riconquistare gli strumenti indispensabili per ricondurre il destino dell’Italia nell’alveo delle garanzie democratiche necessarie per legiferare per il bene comune e per tornare a crescere.

È urgente recuperare leadership ma non nel senso dell’ottenimento del potere fine a se stesso e del comando finalizzato al solo interesse di parte. Una leadership fatta di programmi chiari, identitari e ben definiti nell’interesse generale. Non una direzione fumosa determinata dalla sola e spasmodica ricerca del consenso attraverso la regola concessione-appoggio e inseguendo le pulsioni popolari anziché risolvendone i veri bisogni.

Chi in queste settimane sta provando a sostenendo una qualsivoglia prerogativa di estraneità rispetto a quanto sta accadendo e che prova perfino ad autocelebrarsi per affermare una propria presunta eccellenza, deve invece comprendere che siamo arrivati al punto zero e che con tutta probabilità, nel prossimo futuro non ci saranno bonus né politici né imprenditoriali da rivendicare.

Questo zero non deve tuttavia costituire un elemento minaccioso né un termine di condanna, perché altro non è che il punto di rottura tra un passato che ha prodotto macerie e un futuro tutto da costruire.

La cultura, se sarà libera e indipendente, se potrà  crescere, sperimentare, provocare e rappresentare la realtà in mille forme, potrà dare la spinta decisiva per tornare a costruire.

Se continuerà ad avere padroni che decidono dall’alto, che reprimono e annientano tutto ciò che sfugge al loro controllo e che vengono spalleggiati da una politica subordinata e demagogica, sarà invece soltanto l’espressione di un paese che ha scelto di morire.

Noi crediamo però che con modelli concreti, trasparenti, dinamici e innovativi questo sistema agonizzante possa essere cambiato e anche rapidamente.

Per questo non cediamo ai ricatti e agli avvertimenti che ci arrivano da caste che sono ormai alle ultime rappresentazioni. La stessa cosa farà tutta quella parte, infinitamente maggioritaria, del Paese che non accetta di morire e che con forza vuole tornare a crescere anche grazie a una produzione artistica e culturale in cui i cittadini non saranno più utenti, clienti e passivi fruitori, ma torneranno a essere soggetti protagonisti e prioritari dello straordinario viaggio della creatività e della conoscenza.

 

SteP
4 dicembre 2011

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