Stanno proliferando iniziative di ogni genere per distribuire film e documentari. Il termine “distribuire” prima aveva un senso abbastanza preciso che riguardava qualcosa molto simile a una relazione con il pubblico che fruiva consapevolmente di opere cinematografiche.
Quella a cui stiamo assistendo sembra più una corsa pazza per accaparrarsi le bancarelle migliori al mercatino del cinema. Potrebbe perfino succedere che i venditori diventino più numerosi  del pubblico. La rete è immensa e offre sbocchi infiniti, lo dicono tutti. Anche l’offerta televisiva era definita tale e al moltiplicarsi dei canali è accaduto che si siano propagate anche le televendite, per non parlare degli spazi pubblicitari e dei loro gestori.

Legittimo utilizzare uno strumento così potente per accrescere il pubblico e i clienti, ma siamo così sicuri che la funzione della TV sia quella? L’ansia del consumatore si è amalgamata a quella del venditore e nel delirio collettivo il prodotto da vendere ha preso il posto del mercante, del compratore e a volte è riuscito a mantenere il suo ruolo primario ma in forma sfumata, secondaria. Quello che conta è il numero di contatti, è la cifra potenziale, è l’indice percentuale. Attenzione, si sta parlando di esseri umani, anzi no, si sta parlando di prodotto. Insomma si parla di qualcosa che ha a che fare con il profitto, se si vende un quadro o un telefonino o carne umana o un film fa poca differenza. Ma invece la fa eccome.
Non sappiamo più riconoscere dove finisce una cosa e comincia l’altra. Se l’opera dell’ingegno è un prodotto da vendere. Se lo spettatore è una persona o serve solo a fornire dati a tutti i guru dell’ottimismo e del pensiero al positivo. Non comprendiamo se è giusto che il mondo vada così ma intanto molti scrollano le spalle rassegnati, “ perché in fondo noi che possiamo fare”, oppure s’indignano. Ma bisognava indignarsi 20 anni fa. Dove cazzo stavano gli indignati 20 anni fa?
Chiedo scusa e provo a riprendere il filo.
Il prodotto non è il diavolo, non lo è chi lo vende e nemmeno chi lo acquista. Però in questo trentennio è successo qualcosa che dovrebbe farci riflettere. Spersonalizzare, automatizzare, virtualizzare e tutti i bei verbi che fanno rima con finanziarizzare non ci hanno portato un gran che bene. Questa corsa folle che viaggia sull’equazione prodotto-cliente, accesso-profitto, visibilità-posizionamento è un gioco che allontana e disperde.
In assenza di regole e di un sistema di valori riconoscibile il prodotto, l’opera o come diavolo vogliamo chiamarla è un pacco fine a se stesso che gira in una giostra senza più protagonisti umani. Tutti diventiamo merce e alla fine anche il giostraio sarà inghiottito nel vortice che lui stesso ha creato.
Fa paura un futuro come questo. Crea panico e smarrimento sentirsi alla mercé del nulla.
La dignità di un’opera artistica nasce dal talento che la concepisce e si riconosce non nell’atto della cessione ma nello scenario in cui prende vita e in cui si manifesta. Se il pullulare di mercatini e di illusioni vincerà sul valore culturale e sulla consistenza intellettuale il nostro essere automi al servizio del mercato ideologico sarà l’epilogo scontato dei troppi anni regalati al pensiero debole.
Senza un’architettura solida e leale che sostiene l’offerta, noi tutti saremo roba da vendere al film che viene proposto dal più forte, dal più ricco, dal più potente.
Ma se gli autori, i registi e tutti coloro che hanno scelto un’attività artistica perché sognavano di essere anche protagonisti dei cambiamenti utili alla civiltà e aspiravano a creare un bene d’uso sociale (e basta coll’assurdità del bene comune) a favore della popolazione, se tutte queste donne e uomini capiranno quanto è importante la loro opera in questo periodo storico così pericoloso, allora avremo trovato la prima chiave, la più importante, per riprenderci gli spazi di offerta culturale in cui non esiste più il rischio di non capire chi è in vendita. Perché la vendita sarà l’ultimo dei problemi.

SteP
10 dicembre 2011

 

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