Dalle stanze delle Istituzioni italiane ci arrivano rumori assordanti. Non si tratta di esplosioni né di tintinnii di sciabole. Sono rumori più vicini al fragore di un crollo e al trascinarsi di detriti.
Rumori disordinati e carichi di angoscia, perché tra quei frammenti che ascoltiamo precipitare e rivoltarsi, ci sono i pezzi della nostra storia, delle radici a cui apparteniamo e di un sistema di valori su cui abbiamo, quasi tutti, costruito o anche soltanto progettato il nostro futuro.
È ormai superfluo riaffermare il disprezzo per le classi dirigenti politiche. È uno sdegno entrato ormai nel DNA di un popolo intero, un dato scontato di cui, a questo punto, è inutile anche parlare.

Milioni di Italiani vivono in una trincea fatta di precariato e di povertà. L’esasperazione corre lungo la Penisola e si manifesta, con sempre maggiore frequenza, nelle sue forme più violente e disperate.
Dovevano arrivare risposte immediate e invece abbiamo ricevuto bugie o silenzi. Pretendevamo trasparenza e competenza e invece abbiamo solo assistito ai soliti giochi di potere, dai vecchi come dai “nuovi”. Un risiko estenuante mentre il Paese stava crollando.
Questa Città e questa Regione non si distaccano dallo scenario italiano. Ne sono parte e in molti casi ne rappresentano l’emblema. Apparati tornati alla ribalta provano a ristabilire modelli di controllo che non hanno più nessun motivo di esistere e ancor meno possono garantire la svolta irrimandabile di cui c’è urgente bisogno. Si sente il fruscio della negoziazione con i gruppi dominanti e il sibilo del compromesso al ribasso. Il Lazio è un’immensa macchina in rovina e Roma è diventata una grande borgata. Chi aveva chiesto un approccio diverso nella programmazione non ha ottenuto risposta. Assessori e funzionari si nascondono in attesa di rimettere insieme gli ingranaggi fracassati che dovrebbero far ripartire la macchina. Provano a nascondere il dissesto finanziario per non dire che la prossima economia sarà di guerra. Ragionano sul bilancio e non affrontano la discussione sul sistema. Cercano la benzina per un motore che non può funzionare e che non funzionerà.
Il nostro patrimonio umano, artistico e culturale resta schiacciato sotto il peso della burocrazia e delle beghe di partito. Mille vendette politiche alimentano il ricatto e l’autoreferenzialità e l’amministratore della cosa pubblica scompare perché paralizzato dalle lotte intestine o perché è un re con una corte già determinata.
Dalla trincea è difficile accettare un simile teatrino, soprattutto se c’è tanto caldo e se non potrai permetterti nemmeno un giorno di vacanza.
Non c’è più una torta da spartirsi e la posta in palio non è più la riconferma o la nomina. La sola alternativa che abbiamo davanti è quella che prevede la catastrofe o il riequilibrio sociale ed economico.
Chi sta operando dalle stanze del potere nel rispetto dei codici distorti che ci hanno condotto al baratro, si troverà comunque a doverne rispondere. Il mondo al contrario non manda il sangue in testa solo ai poveri. Chi invece comprenderà che le risposte non sono quelle custodite sulle torri dorate e nei giardini dei potenti, ma appartengono all’impegno collettivo di tante donne e uomini che conoscono da vicino i problemi, riuscirà a introdurre criteri più efficaci su cui poggiare le nuove forme di sviluppo.
Solo chi vive il problema ha premura di risolverlo e solo chi ci si confronta ogni giorno sa come affrontarlo.
Può apparire questa un’affermazione demagogica, ma purtroppo le vicende che hanno segnato la storia dei nostri ultimi 30 anni ci mostrano che dall’alto sono arrivate quasi sempre disgrazie e al massimo un cestino di brioches.

SteP
3 agosto 2013

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