Passerelle e Passatelle: lunghi viali di olmi nei giardini del re

Passerelle e passatelle Lunghi viali di olmi nei giardini del re La Passatella era un gioco molto in voga sia nella nella Roma antica che in quella dei papa re. Lo scopo del gioco era quello di riunirsi a tracannare vino e far sì che tutti i convitati riuscissero a bere tranne uno, detto l’Ormo (da l’albero dell’olmo), che veniva considerato lo scemo della comitiva. Quasi sempre finivano tutti ubriachi e non era escluso che alla fine, il raduno si trasformasse in rissa o addirittura finisse a coltellate. In corrispondenza dell’ultimo disastro italiano, stavolta originato dalle forze della natura, c’è stato come sempre il classico corteo di baldi politici che a vario titolo sono accorsi nelle zone terremotate. Polemiche a non finire sull’opportunità e/o la smania di apparire, annunciare, rassicurare, promuoversi. Altri scontri sono scaturiti dai contenuti di una puntata di Anno Zero. Altre zuffe arriveranno, già lo sappiamo tutti, così come verranno alla luce fatti che ci faranno vergognare una volta di più di essere Italiani, a parte la generosità, la solidarietà e tutte le noiose menate perbeniste e fasulle di questo genere. Mi soffermo però su quanto sia strano preoccuparsi delle apparizioni televisive dei politici o delle inchieste giornalistiche, peraltro abbastanza normali. Mi chiedo quanto sia invece anormale questo intreccio di preoccupazioni sulle presenze in tv e quanto sia debole e inconsistente la personalità di coloro che si inquietano o che se ne servono, a seconda delle evenienze. Una persona autorevole, solida e affidabile resta tale se appare o se lavora nell’ombra, e mi vergogno della banalità che sono costretto a scrivere, ma se fossimo in un posto degno e decoroso nessuno avanzerebbe sospetti di sorta. Soltanto il Presidente della Repubblica ha saputo cogliere l’essenza di quanto è accaduto e lo ha fatto senza moralismo ed è stato il primo. Gli altri, giornalisti e politici, si passano il bicchiere e si ubriacano prima di fare a botte. In questo gioco misero, l’Ormo, il fesso, lo scemo, lo zimbello, il bastardo è il popolo miserabile che accorre ai loro schermi e perfino si schiera. Che si sente bravo e generoso, s’inchina al padrone e adora lasciarsi imbrogliare. In una nazione in cui un moderno ospedale (opera Impregilo) si sbriciola e in cui un’intera città è inagibile, chiunque vada a fare il bello e bravo può essere al massimo un ridicolo cazzone imbecille. È allarmante riflettere sui milioni di loro discepoli. Stefano Pierpaoli febbraio 2009

Arcipelago Italia

Arcipelago Italia Il potere dei simboli in una società senza più identità Albert Camus, in occasione dei suoi frequenti viaggi in Italia (tra il 1940 e il 1955), descriveva in modo estasiato l’incontro con gli abitanti, con le atmosfere, con i paesaggi del nostro Paese, fino al punto di provare pentimento per “gli anni neri e stupidi vissuti a Parigi”. Pur tra le mille contraddizioni che attraversavano una nazione dilaniata dalla guerra e segnata dalle profonde differenze tra Nord e Sud, egli riusciva a cogliere uno stesso clima di fervore e vicinanza che legava tra loro le genti e i luoghi. Un’atmosfera non solo popolare che in qualche modo identificava un percorso comune e condiviso.   Se Camus ripercorresse oggi le stesse strade che tanto esaltavano il suo spirito, scorgerebbe con difficoltà quel legame forte che al tempo ci permise di rinascere e in molti campi di fare scuola. C’è un proliferare di bandiere, simboli e varie appartenenze, che restringe la vista e soffoca il pensiero. La nostra disgregazione è l’elemento che più di altri risulta evidente e che deprime. Così come esiste una frenetica corsa verso il consenso o la telepopolarità, ampie fasce di popolazione tendono all’autoesclusione, organizzandosi in gruppi più o meno omogenei, che convivono in microambienti adeguati alle loro necessità. Entrambi i gruppi vivono nella spasmodica ricerca del nemico, del pericolo, del diavolo. Il punto di partenza si traduce in parole d’ordine e dogmi integralisti, utili (?) per sconfiggere la destra, per sconfiggere l’Inter, per sconfiggere l’extracomunitario, per sconfiggere l’AIDS. Sembra quasi che tutto sia governato da una mano invisibile che alla fine fa in modo che le lotte si uniformino nel metodo e svaniscano in un grande calderone. Lo stesso carattere reazionario di certe iniziative politiche si ritrova facilmente nell’azione di molti centri sociali, e il fattore omologante è tutto nel tribalismo, scelto o indotto, attraverso il quale si limita un territorio e se ne stabiliscono le regole in modo autoritario, sottraendolo a una socialità compiuta e armoniosa. È indubbio che comunque la si ponga, è tutta una questione legata ai verticismi e decisa dai capi. Vertici intellettualmente deboli e capi incompetenti non possono che scegliere la strada più semplice per continuare a manovrare il timone di una nave alla deriva. Dividere, distrarre e trovare sempre un grande nemico, sono strumenti efficaci per controllare le masse, e una società strutturata in tribù dà a tutti l’illusione di essere al centro di qualcosa. Sarebbe forse questo il filo invisibile che colpirebbe l’immaginario di Camus.   Eppure, tra le mille isolette inaridite, esiste una percezione comune che potrebbe spingerci a camminare incontro. Una povertà comune, un’ignoranza comune, una disoccupazione comune, una comune precarietà che faranno in modo di trovare una soluzione altrettanto condivisa.   Stefano PierpaoliGennaio 2009

Agosto – lettera aperta

Nell’ultimo di una serie di incontri avuti con vari responsabili dell’Assessorato per le Politiche culturali del Comune di Roma ho chiesto personalmente un atto di responsabilità sociale e politica nel merito particolare del Festival cinematografico di Roma. (Accadeva a luglio, n.d.a.) Tale richiesta deriva dalla necessità di porre in essere un’offerta culturale più vicina alla cittadinanza e per creare una manifestazione coerentemente inserita in questa delicata fase di congiuntura. Lo stesso appello, in allegato, viene ora rivolto ai coordinatori dell’organizzazione della rassegna romana, al fine di non produrre una manifestazione che possa essere recepita come elemento dissonante rispetto alle difficili realtà vissute dalla popolazione alle prese con grandi difficoltà economiche. Un eccesso di glamour e di rappresentazione sfarzosa potrebbe essere considerato offensivo in un’epoca di crescente sacrificio e di forte contrazione dei consumi. Per questo è stato presentato un progetto partecipato che prevede un decentramento significativo di alcune proiezioni che verranno offerte in alcune periferie romane. Una sorta di innesto che non si limiterà tuttavia alla sola ribalta dell’evento ma che prevede interventi sistemici con progetti che si protrarranno nel corso dell’anno. In un periodo nel quale non si possono escludere forti tensioni sociali, una scelta così concepita darà un evidente segno di responsabilità e maturità. Responsabilità da parte delle Istituzioni cittadine perchè daranno segno di maggiore sensibilità e vicinanza con la popolazione rispetto alle opzioni elitarie e alla “comunicazione glamour” e fine a se stessa. Responsabilità da parte dei responsabili dell’organizzazione del Festival perchè concederanno spazio a nuove e diverse realtà oltre a dimostrare maggiore coscienza delle dinamiche in atto nel Paese. Al tempo stesso si potrà dialogare con la cittadinanza su una base di trasparenza, lealtà e consapevolezza reciproca, nel rispetto della difficile congiuntura e non in contrasto col malcontento degli Italiani. Come testimoniato da tutta l’attività svolta nell’ultimo anno da Consequenze con tutte manifestazioni a costo zero per la comunità, occorrono segnali forti di discontinuità e di cooperazione per ricostruire un tessuto di relazioni ormai sfilacciato e per dare vita a progetti in cui i cittadini si sentano davvero rappresentati. Esasperazioni ed eccessi nella rappresentazione dell’opulenza a scapito di contenuti culturali e sociali riferiti a valori condivisi e inalienabili, costituiscono, oggi più che mai, mortificanti ferite per lo stesso senso civile della popolazione. Occasioni di crescita comune, di inclusione sociale, di confronto e di ascolto effettivo delle istanze che da essa provengono saranno invece presupposto di armonia e di nuove opportunità, in un momento che, seppur denso di incertezze, deve diventare lo snodo iniziale di rivalutazione e rinascita generale. Da Roma potrà partire un grande messaggio culturale e civile di solidarietà, modernità e di sviluppo nel quale confluiranno energie e progetti che porteranno maggiore equilibrio sociale, crescita culturale e opportunità di formazione e lavoro. Un sentito ringraziamento a tutti coloro che raccoglieranno questo appello con spirito costruttivo e responsabile. Con stima Stefano Pierpaoli

Luglio

Luglio I veltrusconismi disperati nel regno dell’ipocrisia Nell’editoriale di maggio, intitolato ConvEMergenze, avevo accostato il clima di auspicate convergenze, alle emergenze che ci apprestiamo ad affrontare. Fino a un anno fa i due leader che si sarebbero affrontati nell’atmosfera flemmatica e intorpidita dell’ultima campagna elettorale, spingevano il popolo al sorriso. Dall’invito all’ottimismo sfrenato predicato da Silvio Berlusconi alla visione paradisiaca e giggionesca di Walter Veltroni. Il leader esanime di un partito nato morto, nel corso di una puntata di “Niente di Personale” su La7, alla domanda del conduttore Antonello Piroso su come vedesse il futuro, ha risposto candidamente: “Il futuro? Ah…beh…il futuro è meraviglioso!” Viene da pensare che questi due signori vivessero in un paese davvero diverso da quello di milioni di cittadini. Cattiva fede o inconsapevolezza? Mah… Le convergenze che ironicamente definimmo “prodigiose” sono comunque venute meno e siamo tornati alle prese con la datata telenovela de “La Sindrome del ricercato”, come sempre interpretata dal povero Berlusconi inseguito dalle “terribili toghe rosse”. Anche il sogno americano del trasognato Walter sta naufragando nel nulla e la sua ClintonIdea più che a una stimolazione fa pensare a una ninna nanna angosciante. Signore e signori: “Siamo al tracollo”. Un disastro non solo politico che ci costringerà a liberarci dal torpore colpevole e tonto in cui ha preferito nascondersi un paese regalato alla disonestà, all’indecenza e alla spensieratezza dell’ignoranza. L’Italia è moribonda. Malata di individualismo e disimpegno. Assorbita nella paura del diverso e spinta dalla furbesca propaganda, verso una ricerca di sicurezza finta. Una nazione smarrita che oppone qualche spiccio all’inflazione che galoppa e corre dal re, dal parroco o dal comico, per il miracolo, il perdono o per il momento di evasione. Continuando così non ci può essere scampo e anche la vecchia difesa degli orticelli da miserabili che tanto amiamo dalle nostre parti, è diventata ridicola e superflua. Quei minuscoli poderi, simboli del nostro gretto egoismo, sono diventati vasetti di bonsai rinsecchiti. La degenerazione italiana è ben rappresentata dalle cifre ignobili che compongono le liste sulla corruzione e sul malaffare in ogni sua espressione. Ma è resa ancor più grave dal dissesto culturale che avvolge la nostra società senza qualità. Senza più paradigmi di valori ai quali riferirsi. Senza capacità di riconoscere il bello, il giusto, il sano e quindi di poterlo pretendere. Siamo impantanati nell’esperienza del peggio senza più gli strumenti per liberarcene e il brutto, il violento e il disonesto sono parte di un quotidiano bastardo in cui c’è sempre posto per il padrino, il ruffiano e il pusher. In cui si muore di miseria in attesa del solito sovrano promettente. Ci sono spazi ed energie. Esistono eccellenze mortificate da criteri sleali ma pronte a emergere e a lavorare. Associazioni di cittadini che operano in ogni territorio e una miriade di donne e uomini che hanno voglia di ricominciare. Se gli Italiani sapranno unire in una catena di impegno e serietà tutte queste forze limpide, l’incubo di una brutta notte, diventerà risveglio esaltante. Stefano PierpaoliLuglio 2008

ConvEmergenze

ConvEmergenze Autori, maghi e salotti nel paese dei balocchi A Cannes portiamo sullo schermo i vizi italiani ben rappresentati dai due migliori registi di casa nostra (Garrone con Gomorra e Sorrentino con  Il Divo). Nel frattempo, dalle emittenti e sui quotidiani parliamo poco di malapolitica e di camorra. Trascuriamo mafia e ‘ndrangheta, come fossero fenomeni organici con i quali convivere.I nostri mali sono gli accampamenti Rom e le badanti prive di permesso. Accumuliamo “nuove” emergenze dopo averne ignorato l’esistenza per decenni. La mondezza ricopre un’intera regione. Diffuse testimonianze di disperazione giovanile vengono archiviate con noncuranza e l’assenza di futuro per milioni di ragazze e ragazzi diventa fattore marginale rispetto alle ultime esternazioni di Adriano Celentano. Una prodigiosa ondata di convergenze si profila magicamente all’indomani di una lunghissima stagione di veleni che hanno indebolito l’Italia rendendo grottesco, volgare o stucchevole, a seconda dei casi, il nostro panorama istituzionale. Nei fatti abbiamo un governo di solidarietà (unità?) nazionale che tenta di gestire il tracollo prodotto dagli stessi uomini che si autoincaricano di risolverlo. Nessuna pregiudiziale e nessun commento. Non possiamo far altro che augurarci che ci riescano. Noi ggente dela strada siamo alle prese con altri problemi: affitto, spesa, attese per analisi e ricoveri, istruzione allo sfascio, giustizia lenta e diseguale, precarietà, salari da fame e chi più ne ha più ne metta. Siamo società civile e abbiamo il problema della quotidianità. Della sopravvivenza. Alle incantevoli convergenze si aggiungono fusioni dal suggestivo tempismo e dichiarazioni di intenti che annunciano l’avvento di principi azzurri e cenerentole, in un paese delle meraviglie in cui gli orribili Shrek del potere diventano cavalieri senza macchia. In questo fiabesco scenario non mancano naturalmente i paladini della cultura che ogni 365 giorni propongono la loro pozione magica per la difesa di qualcosa su cui già spadroneggiano.   Un anno fa la corporazione dei 100 autori raccolse 940 firme (da Ramona Badescu a Ray Lovelock e Nadia Bengala. Non firmarono né Sorrentino né Garrone) su un documento che venne presentato al Presidente della Repubblica. L’allora Ministro dei Beni Culturali Rutelli partecipò alle riunioni dei notabili del cinema e accolse con favore il loro accorato grido di dolore. Un passaggio di quella lettera recitava così: ”Il 7 maggio, per la prima volta dopo molto tempo, noi del cinema abbiamo deciso, in tanti, tutti assieme, che siamo pronti a lottare e ad accendere fuochi anche nelle altre arti e nell’informazione per riaffermare l’idea che la cultura è momento fondante dell’identità del nostro Paese ed elemento strategico del suo sviluppo.” A un anno di distanza i 100 autori sono tornati nel loro etereo regno dell’invisibile accordo dopo esser corsi ad incontrare il neoeletto Barbareschi per trovare nuove protezioni.   Fortunatamente Alan Elkan, nuovo Mago Merlino, ha escogitato un nuovo incantesimo – “Italia – Paese della cultura e della bellezza” – per rinverdire l’impeto delle forze del bene. Si è inventato un manifesto al quale hanno aderito a oggi (18 maggio) 1.160 aristocratici italiani. Non c’è più Nadia Bengala ma moltissimi dei 100 prodi autori ricompaiono puntuali nella lista. E poi Fedele Gonfalonieri, Giovanni Cobolli Gigli, Lapo Elkann, Raffella Carrà, Federico Moccia, Mario Ciancio, Marco Tronchetti Provera, Klaus Davi, Rita Forte e via così. Una nuova lettera al Presidente della Repubblica e un altro significativo intervento dell’appena nominato Ministro dei Beni Culturali Bondi.     Come sempre, un recinto salottiero che nulla conosce della società civile né del paese reale. Un mondo fuori dal mondo che ha trasformato la cultura in un vortice di squallore e volgarità. Un manipolo di padrini e picciotti che sa bene come garantirsi il posto e il privilegio. Ci porteranno al baratro. Stefano Pierpaoli18 maggio 2008

Marzo

Marzo Un giorno tutti quanti l’animali sottomessi ar lavoro,decisero d’elegge un Presidenteche je guardasse l’interessi loro. C’era la Società de li Majali, la Società der Toro,er Circolo der Basto e de la Soma,la Lega indipendente fra li Somari residenti a Roma;e poi la Fratellanza de li Gatti soriani, de li Cani,de li Cavalli senza vetturini,la Lega fra le Vacche, Bovi e affini… Tutti presero parte all’adunanza.Un Somarello, che pe’ l’ambizzione de fasse elegges’era messo addosso la pelle d’un leone, disse:“Bestie elettore, io so’ commosso:la civirtà, la libbertà, er progresso…ecco er vero programma che ciò io,ch’è l’istesso der popolo! Per cuivoi voterete compatti er nome mio”Defatti venne eletto proprio lui. Er Somaro, contento, fece un rajo,e solo allora er popolo bestiones’accorse de lo sbajod’avé pijato un ciuccio p’un leone!”Miffarolo! Imbrojone! Buvattaro!” ”Ho pijato possesso – disse allora er Somaro –e nu’ la pianto nemmanco se morite d’accidente.Peggio pe’ voi che me ciavete messo! Silenzio!E adesso, rispettate er Presidente! (Trilussa – 1930) Qualcuno ha pensato a cosa accadrebbe se all’indomani delle elezioni ci svegliassimo con la vittoria di Mastella e della Santanchè? In fondo sono due candidati premier. Tutto sommato si presentano con una lista e un simbolo tutto per loro. C’è da ritenere che i loro elettori credano nel successo del programma politico dei due leader. Quindi perché escludere questa ipotesi e dare del coglione a chi li voterà? Potrebbero essere maggioranza e quindi regalare al Paese un Presidente del Consiglio del calibro della Briatore’s Angel e come suo vice il Ras di Ceppaloni.Mi verrebbe da dire: cazzotto libero e tutti al Billionaire, tra cassonetti e paiette alla faccia di questa stucchevole disputa tra i profeti del facile sondaggio.Pippo Baudo verrebbe inquisito per aver detto: «Allora scazzottiamoci, prendiamoci a pesci in faccia così fottiamo il pubblico e avremo un’Italia di merda»Signor Pippo, il concetto è inoppugnabile ma troppo generoso: siamo già in un’Italia di merda.Alla fine della de-generazione della politica c’è l’esibizione al Colosseo. Anche alla fine della perversione culturale e dello spettacolo c’è il Colosseo.Una massa di spettatori ben manovrati da giullari, funzionari e imperatori e che aspettano il sangue dei cristiani. Il fascino del circense è storia antica. Come quello del dittatore, del capopolo, del grande salvatore. Dell’unto, l’incensato, del bello, del ricco e del signore.Da noi, oltre agli elencati che danni ne hanno fatti, esiste anche quello del calciatore, poco importa se semi-analfabeta e pagator di veline. Ar popolo jè serve.Eppure arriva il tempo di guardarsi bene in faccia e accorgersi senza ipocrisie che al capolinea su cui indugiamo non passeranno torpedoni propizi. Ce lo dice la sfrenata demagogia e il populismo a gogo con cui viene impostata questa tristissima campagna elettorale che porta verso il niente.Lo trasmette la povertà da cui siamo attanagliati e le tante guerre tra poveri in cui ci annulliamo.Eppure è ancora forte la tendenza ad oscillare tra una delega in bianco fatta al carovaniere di turno e la ridicola difesa del proprio spazietto di finta autonomia. Mille isolette aride che se ne stanno all’ombra di enormi promontori prepotenti, sperando, senza ammetterlo, di vedere un avanzo di successo rotolargli nel piatto o nella testa. Mille isolette alla mercè dei boss criminali, gonfie della loro stessa immondizia ed elettrìci o tifose dello stendardo al quale riferirsi. Berluschini, veltruschini, girotondini, grillini, muccini. Niente di più. Niente di meglio. Il family day, il vaffanculo day, il democratic day, il monnezza day. Niente di più e niente di meglio. Proclami, promesse e aggressioni. Diventa quindi chiara l’equazione che consente al potente di turno di beffare la GGGGente (come la chiamano loro), accaparrare consenso e poi disprezzare la popolazione, riconoscendola gretta, ipocrita e conformista. Quello che in verità molto spesso sembrerebbe essere (ma diciamolo a bassa voce). A poco serve la piazza, strumento che soprattutto negli ultimi anni si è rivelato congegno di consenso facile da manipolare, e ad ancor meno servono l’urlo feroce e l’invettiva privi di proposta e di costruzione. Privi cioè del supporto intellettuale indispensabile affinché uno o più aggregati sociali acquistino indipendenza dai simboli e dalle suggestioni di facile presa.Indipendenza, in questo tempo, è sinonimo di cooperazione tra individui, perché solo grazie ad essa si conquista peso e spessore, capacità decisionale e democratica. Andare dietro al capo e rimanere isole, impoverisce le ragioni del capo (qualora ce ne fossero) e annienta quelle delle isole. Non servono 500.000 persone in piazza. La piazza è ormai una categoria del passato. Priva di rappresentanza e senza più riferimenti. Sarebbe il tempo di ricominciare a fare politica perché questa assenza la pagheremo molto cara. Stefano PierpaoliMarzo 2008