1. Il cervello che pensa:
la biologia della mente
Prima ancora di pensare, il nostro pensiero ha già una forma. Una forma di carne, di impulsi elettrici, di memoria incarnata. Il cervello non è un semplice contenitore: è il primo paesaggio in cui la mente si muove
L’anatomia del pensiero
A volte dimentichiamo che pensare è un processo biologico.
Quando pronunciamo “io penso”, raramente immaginiamo il pulviscolo di sinapsi che si accende nel nostro cervello. Eppure, dietro ogni intuizione, dietro ogni ragionamento, dietro ogni parola che scegliamo c’è una sinfonia invisibile di neuroni che dialogano.
Il cervello umano pesa poco più di un chilo e mezzo, ma consuma circa il 20% dell’energia totale del corpo. Un motore instancabile, affamato di glucosio e ossigeno. È fatto di circa 86 miliardi di neuroni, ciascuno dei quali può connettersi a migliaia di altri: una rete vivente, più complessa di qualsiasi infrastruttura creata dall’uomo.
Ci sono regioni cerebrali con compiti ben definiti – l’ippocampo per la memoria, la corteccia prefrontale per la pianificazione, l’amigdala per le emozioni – eppure nulla nel cervello lavora isolatamente. Il pensiero è un atto corale, un’architettura in movimento. Le neuroscienze moderne hanno svelato che non esiste un “centro del pensiero” ma piuttosto circuiti dinamici che si attivano e si disattivano a seconda del compito, dello stato d’animo, del contesto.
Pensare è abitare un corpo, non un astratto disegno logico. Ed è da qui che comincia ogni conoscenza.
Il tempo della mente
Viviamo nel tempo ma la nostra mente ha un tempo tutto suo.
Esistono pensieri rapidi come scintille che possiamo chiamare reazioni, intuizioni, automatismi. E poi ci sono pensieri lenti, che maturano come il vino nei silenzi della coscienza.
Uno dei tratti più affascinanti del cervello è la sua plasticità: la capacità di modificare se stesso nel tempo, di apprendere, di dimenticare, di adattarsi. Ogni esperienza lascia una traccia, ogni apprendimento riconfigura la rete neurale. Questo significa che il pensiero non è mai statico, ma sempre in trasformazione.
Ma questa stessa meraviglia ha dei limiti. La memoria di lavoro, ad esempio, ha una capacità ridotta: possiamo trattenere attivamente solo pochi elementi per volta (7±2, secondo la celebre formula di Miller[1]). Quando leggiamo, parliamo o prendiamo decisioni, dobbiamo fare i conti con questa finestra cognitiva ristretta.
E poi c’è la fatica mentale: pensare costa. La concentrazione prolungata esaurisce le nostre risorse attentive. Dopo un’ora intensa, il cervello ha bisogno di rifiatare, come un corridore dopo uno sprint.
Il tempo della mente è quindi fatto di slanci e pause, di apprendimenti profondi e di oblii provvisori. Pensare bene richiede rispetto per questi ritmi: non possiamo accelerare all’infinito senza perdere profondità.
[1] La formula “7±2” si riferisce alla teoria dello psicologo George A. Miller, che nel 1956 ipotizzò che la memoria di lavoro umana può contenere in media 7 elementi (più o meno 2) simultaneamente. Vedi: G. A. Miller, The Magical Number Seven, Plus or Minus Two, Psychological Review, 1956.
Errori che vengono da lontano
Chi ci dice che ciò che percepiamo è davvero lì, com’è?
Il nostro cervello non è uno specchio della realtà, ma un costruttore attivo di mondi. Interpreta, seleziona, filtra. Molto spesso gli capita di sbagliare.
Gli errori percettivi non sono difetti, ma scorciatoie evolutive. Vediamo ciò che è rilevante, non tutto ciò che c’è. Questo spiega ad esempio le illusioni ottiche ma anche qualcosa di più profondo: il nostro sistema percettivo è guidato da aspettative, abitudini, probabilità. In fondo, vediamo ciò che ci aspettiamo di vedere.
Anche a livello inconscio, la mente è attraversata da bias[2], errori sistematici nel modo in cui giudichiamo, ricordiamo, decidiamo. Questi non nascono dalla malafede, ma dalla necessità: il cervello preferisce risposte rapide e sufficientemente buone, piuttosto che analisi lente e perfette.
La coscienza razionale arriva spesso tardi, a giochi fatti. Molte scelte sono già state prese da circuiti emotivi o automatismi inconsapevoli. Il pensiero razionale, quello che crediamo di usare sempre, è solo la punta emersa di un iceberg molto più profondo.
[2] I bias cognitivi sono distorsioni sistematiche nella nostra capacità di pensare e decidere, portando a giudizi irrazionali e comportamenti inefficaci. Spesso sono dei costrutti fondati su ideologie e pregiudizi che consentono di prendere decisioni ma che possono indurre in errore.
Invecchiare pensando
Con il tempo, il corpo cambia. E anche la mente.
Non siamo più veloci, né immediati. Ma questo non significa che pensiamo peggio. Lo facciamo solo in modo diverso.
Con l’età, alcune funzioni cognitive possono calare: la memoria episodica, la rapidità di elaborazione, la flessibilità mentale. Ma altre, come il vocabolario, la conoscenza culturale, o la capacità di sintesi emotiva, tendono a rimanere stabili o addirittura a migliorare.
In molti anziani si osserva una maggiore regolazione emotiva, una più alta saggezza pratica, una capacità di cogliere il senso più che i dettagli. È una diversa intelligenza, forse meno scintillante, ma più profonda ed equilibrata.
Invecchiare non è solo una perdita: può essere anche una fioritura tardiva, se il pensiero rimane curioso, aperto, in dialogo con il mondo. La plasticità cerebrale non sparisce: si trasforma.
Pensare, anche in età avanzata, è un atto di presenza. E, in fondo, un gesto d’amore verso la vita.
Stefano Pierpaoli
24 maggio 2025
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